Si perde il lavoro, ci si allontana dalla famiglia, si comincia a vedere tutto nero e il salto nel baratro è presto fatto: si diventa invisibili
Il popolo degli invisibili è sempre più numeroso. Vivere per strada mangiando una volta al giorno, quando si è fortunati, dormendo alla stazione con il proprio bagaglio di vita pieno di storie traumatiche, è una realtà fin troppo concreta anche nel nostro paese.
Anime solitarie e silenziose che si aggirano per le strade con gli occhi persi chissà dove, cercando di vivere un’esistenza di seconda mano con la maggior dignità possibile. Non li vogliamo vedere, ma ci sono e hanno bisogno d’aiuto.
Li chiamano Clochard, senza tetto, vagabondi, o invisibili e non esistono. Non li vede chi gira la faccia da un’altra parte quando li incontra per strada avvolti nei loro vestiti stracciati, non li vede chi incurante della loro mano tesa, continua a camminare distratto dalle proprie frenesie quotidiane. Solo nel nostro paese sono circa 50.000 le persone senza fissa dimora. Sono stranieri, uomini , donne, bambini o anziani.
Vite ai margini di una società che si considera civile, ma di civile ha ben poco, quando non riesce nemmeno a sostenere i loro sguardi che in silenzio chiedono aiuto.
Alla luce del nuovo caso di Trieste, dove un rumeno senza tetto ha visto le coperte e gli indumenti che lo difendevano dal freddo, gettati nella spazzatura in un gesto senza senso, dobbiamo constatare ancora una volta l’intolleranza verso il più debole e l’atteggiamento ostile che impedisce qualunque evoluzione sociale, culturale, ma soprattutto personale e spirituale.
Fortunatamente ci sono anche quelli che attraverso le associazioni di volontariato e i centri di accoglienza aiutano i clochard con azioni semplici, ma necessarie, come portare loro del cibo caldo, indumenti puliti o offrire alloggi gratuiti dove dormire e fare una doccia. C’è, poi, chi oltre all’assistenza concreta porta anche un abbraccio o una parola di conforto, cercando di alleggerire un fardello, fin troppo pesante, per uomini soli che hanno ancora bisogno di sperare.
Nel mondo dei senza tetto c’è dunque ostilità e indifferenza, ma anche solidarietà e comprensione, mi permetto però di pensare che qualunque programma di reinserimento sociale, da parte di coloro che dimostrano sensibilità e empatia per chi soffre, non serve a molto, se prima non investiamo gran parte del nostro tempo, in lezioni di educazione all’amore.
Sabrina Cau