Paola Severini Melograni: “Ecco come la bontà salverà il mondo”
Paola Severini Melograni a tutto campo: da Papa Francesco (“Lui è il futuro!”) a Ezio Bosso (che volle a Sanremo), dalla Rai (antica e moderna) a don Oreste Benzi (che incontrò poco prima della morte), dalla fede (“vedo miracoli tutti i giorni”) alle donne (fulcro della società ma anche della Chiesa) partendo dall’importanza della Giornata Internazionale della Convivenza Pacifica che si celebra oggi.
Chi meglio di lei, una donna impegnata nel terzo settore da tempi non sospetti? Da quando cioè la charity non era un business per testimonial e l’handicap non faceva audience? E’ inoltre fondatrice della Cooperativa Superangeli e del sito AngeliPress, agenzia di informazione nata nel luglio 2000 che si occupa di tutti i temi riguardanti il Terzo Settore e possiede il più grande “archivio libero” d’Italia su questi argomenti.
E’ anche scrittrice: oltre alla monografia “Ersilio Tonini” edita da Minerva Edizioni, è autrice anche di “Le mogli della Repubblica”, nuova edizione 2008, Marsilio, nel quale ha raccolto le confessioni di dodici donne coraggiose – tra le quali: Carla Pertini, Livia Andreotti, Linda D’Alema, Clio Napolitano – che hanno contribuito e contribuiscono nell’ombra a raccontare la storia del nostro Paese.
E’ stata a lungo consigliere dell’Agenzia nazionale delle Onlus, organismo della Presidenza del consiglio dei ministri. Dal 2007 è Segretario generale del Comitato Internazionale Viva Toscanini. Ha ricevuto inoltre il Premio Marisa Bellisario per il suo impegno nel sociale e per la salute delle donne. Per chi se lo chiedesse, ha anche una intensa vita privata: tre figli dal primo matrimonio e sposata, in seconde nozze, con storico Piero Melograni, scomparso nel settembre 2012.
Se fosse un calciatore, Paola Severini Melograni sarebbe certamente un fantasista. Forti di questa intuizione, le abbiamo fatto un’intervista “a tutto campo”, da Papa Francesco (“Lui è il futuro!”) a Ezio Bosso (che lei volle a Sanremo), dalla Rai (antica e moderna) a don Oreste Benzi (che incontrò poco prima della morte), dalla fede (“vedo miracoli tutti i giorni”) alle donne (fulcro della società ma anche della Chiesa) partendo dall’importanza della Giornata Internazionale della Convivenza Pacifica.
Giornata internazionale Onu della convivenza pacifica
L’Assemblea Onu nel 2017 ha deciso di dichiarare il 16 maggio Giornata Internazionale della Convivenza Pacifica, sottolineando come tale evento costituisca un mezzo per mobilitare regolarmente gli sforzi della comunità internazionale nel promuovere la pace, la tolleranza, l’inclusione, la comprensione e la solidarietà. Il progetto di risoluzione – che venne adottato senza votazione – era stato presentato dal rappresentante dell’Algeria allo scopo di promuovere una convivenza pacifica tra tutti i membri senza distinzione di nazionalità, sesso, lingua o religione per garantire riconciliazione, pace e sviluppo sostenibile.
L’intervista a Paola Severini Melograni
Oggi, 16 maggio, si celebra la Giornata Internazionale della Convivenza Pacifica. Crede che si tratti di un appuntamento ancora attuale?
“Attualissimo. Io fui presente alle prime giornate di sant’Egidio. Lì conobbi – durante una giornata dedicata al rapporto con le altre religioni – Yasser Arafat. Tutt’oggi, ho ottimi rapporti sia con la comunità islamica, sia con quella ebraica, sia con quella cristiana protestante. Sono certa che questa sia la strada: la convivenza pacifica tra persone con diversi credi religiosi. Una strada sicuramente non facile, che va cercata, direi ‘coltivata’; ma la pace è ancora possibile”.
Ci vorrebbe una “convivenza pacifica” anche nel terzo settore?
“Sì, sarebbe auspicabile. Se tutte le sigle del terzo settore fossero unite sotto un’unico grande cartello, come avviene in Spagna, avrebbero molto più peso nella vita politica del Paese. L’Italia è infatti il Paese più anziano e con più disabili al mondo dopo il Giappone. Ciò nonostante, il terzo settore è diviso in mille frazionamenti che non fanno bene né alle varie associazioni, né alla società nel suo insieme”.
Quando e come è nato il suo interesse verso il terzo settore?
“Dopo l’esame di terza media, quando conobbi l’uomo che poi divenne il mio primo marito. Era un ragazzo disabile che si stava laureando in medicina. Nonostante la grave disabilità fisica, la tetraparesi spastica, riuscì a laurearsi e a diventare un neurochirurgo. Oggi forse potrebbe sembrare una cosa normale, ma allora era qualcosa di assolutamente inusuale. Grazie a lui, scoprii che esistevano una miriade di gruppi e piccole associazioni di volontari – soprattutto formate da genitori – che si occupavano dei problemi quotidiani legati alle varie disabilità. Poi mi sono sposata e a 17 anni ho avuto il primo dei miei tre figli. E’ stata molto dura inizialmente: studiare, lavorare, crescere un neonato e seguire una persona con disabilità. Ciò nonostante, è in quegli anni di fatica che ho scoperto il variegato mondo del volontariato e dell’associazionismo volto al sociale, quello che oggi genericamente definiamo il ‘terzo settore’. Negli anni ’90 il matrimonio con mio marito è finito. Ma non è finto il mio amore per il sociale. E mi ha lasciato una serie di rapporti meravigliosi con tutti i leader del terzo settore – come don Oreste Benzi, don Pierino Gelmini, Ernesto Olivero, Andrea Riccardi, Chiara Lubich, don Luigi Verzè – che sono proseguiti negli anni e che mi hanno formata, prima umanamente, poi lavorativamente. Ho conosciuto anche madre Teresa di Calcutta! Insomma, un mondo straordinario, nonostante le difficoltà. Ho vissuto negli anni ’70 l’abolizione della legge sulle scuole speciali. Pensi che il mio ex marito, avendo un handicap, non era potuto andare a scuola fino al liceo perché la scuola dell’obbligo non era aperta a tutti”.
L’Italia è un Paese solidale?
“Sì, l’Italia è un Paese solidale che vanta una lunga tradizione di aiuto e attenzione ai bisogni delle persone. Questo, anche grazie alla Chiesa Cattolica, che nei secoli ha giocato un ruolo fondamentale in tanti ambiti dove lo Stato non arrivava abbastanza o non era affatto presente”.
Lei lavora in Rai da molti anni, sia in radio, sia in televisione. Qual è l’importanza dal punto di vista sociale del servizio pubblico?
“Prima della Rai ho fatto tante esperienze nelle prime radio e televisioni private. Ho lavorato in tutto questo mondo della comunicazione televisiva e cinematografica. In Rai sono entrata che avevo 26 anni. La Rai insegna sempre. Questo però non significa che tutto ciò che fa la Rai è educativo, ma che ha sempre il suo ‘peso specifico’. Per tale motivo, bisogna stare sempre molto attenti quando si lavora nella televisione pubblica: è sia un privilegio, sia – d’altro canto – un compito di estrema responsabilità! La Rai del dopoguerra aveva delle emergenze: era necessario dare al Paese una lingua comune e unificante, l’italiano, elevando le masse dai dialetti locali e dall’analfabetismo generale. Chi non ricorda il maestro Alberto Manzi nel programma Non è mai troppo tardi! Che ruolo gigantesco ebbe la televisione pubblica per quel 30 per cento di italiani che non sapevano né leggere né scrivere!”.
Oggi però le cose sono radicalmente cambiate…
“Sì infatti. Con l’arrivo degli anni ’80 e del benessere generale, la Rai – che fino a quel momento aveva avuto un ruolo educativo essenziale – cambiò ‘pelle’ e si mise a rincorrere i contenuti (peggiori) delle televisioni private. La televisione pubblica, infatti, è lo specchio della realtà; uno specchio a volte deformato, ma che racconta il vero. Comunque, non ha mai perso la sua autorevolezza”.
Come vorrebbe la “nuova” Rai?
“Nel futuro prossimo venturo, del dopo Covid e della ‘guerra mondiale a pezzi‘ (per citare Papa Francesco) credo che la Rai debba di nuovo riprendere un ruolo unificante che possa realmente far ripartire il Paese. Questo è possibile cambiando (come dice il Papa) il ‘paradigma economico’. Bisogna insomma cambiare l’economia”.
In che senso?
“E’ necessaria un’economia nuova, circolare, di comunione… come l’ha pensata Chiara Lubich. Bisogna promuovere la cittadinanza attiva. Per questa nuova ripartenza del Paese, i mezzi di comunicazione hanno un ruolo centrale come non l’hanno più avuto da oltre quarant’anni, dagli anni ’80. Nonostante le tv private, i canali on demand, youtube e l’avvento dirompente dei social, il peso della tv pubblica è infatti ancora gigantesco”.
Lei è stata una pioniera e una grande protagonista della comunicazione sociale: come è cambiata quest’ultima negli anni?
“Nonostante il cambiamento sia stato epocale (in positivo), negli ultimi anni direi che la comunicazione sociale sia cambiata un pochino in negativo. Ha lasciato spazio alle varie charity che, a loro volta, hanno ingaggiato dei testimonial. Personaggi spesso molto famosi che però potrebbero avere più un vantaggio per se stessi – nel farsi pubblicità – che non per le associazioni o per le persone delle quali parlano”.
Qual è stato l’elemento maggiormente positivo del cambiamento?
“Innanzitutto, l’importanza dell’aver iniziato a raccontare l’altro. C’era un mondo, quello della disabilità mentale o fisica, che era sconosciuto alla maggior parte delle persone, perché veniva tenuto nascosto, come uno stigma o una vergogna. Ognuno di noi dovrebbe imparare ad andare incontro all’altro. Ma, per poterlo fare, è importante conoscere chi reputiamo essere ‘diverso’. Un esempio: diversi anni fa, le gare sportive dei primi atleti paralimpici non venivano trasmesse in televisione. I conduttori dei programmi sportivi mi spiegarono il motivo: ‘noi andiamo in onda la sera – dissero -. Non possiamo far vedere delle persone handicappate (ancora si usava questo termine) perché a quell’ora la gente sta cenando’. Immagini quanto i tempi siano cambiati! La comunicazione sociale serve a far questo: a far conoscere l’altro e a costruire dei ponti”.
Qual è il ruolo del giornalista impegnato nel sociale?
“Noi giornalisti siamo dei privilegiati, perché abbiamo la possibilità di far incontrare le persone lontane. Di far conoscere ai cosiddetti ‘normodotati’ la ricchezza della diversità. Come è accaduto con Ezio Bosso”.
Portare Ezio Bosso a Sanremo è stata una rivoluzione?
“Sì, lo è stato. E’ stata anche la mia più grande scommessa. Vinta! La sua presenza sul palco di Sanremo ha infatti permesso un cambio di ottica totale: c’è stato un grande amore da parte degli spettatori. E’ entrato nel cuore di moltissime persone, sia per il suo carisma, sia per il suo talento. Si è visto alla sua morte: una commozione collettiva come da anni non se ne vedeva. Se non avessimo avuto Sanremo nessuno lo avrebbe conosciuto. Nel 2017 ho portato, sempre a Sanremo, i Ladri di Carrozzelle che hanno riscosso un indice di ascolto stellare: 10 milioni e mezzo di telespettatori, dimostrando come attraverso i temi sociali si possa conquistare il pubblico. Quindi, è importante portare la disabilità in televisione, ma con molta attenzione e responsabilità”.
Perché?
“Perché portare davanti al grande pubblico delle persone con disabilità non sempre è il loro bene. Può essere un disastro emotivo. Avere una disabilità non basta per diventare famosi (se non per qualche minuto): ci vuole prima di tutto il talento. Altrimenti, la notorietà può essere un’arma a doppio taglio. Bisogna stare attenti quindi a non semplificare. L’obiettivo finale deve essere quello di aiutare le persone, di fare il loro bene, non di fare audience a tutti i costi”.
Che peso ha la fede nella sua vita?
“Il mio essere cattolica è una parte integrante della quotidianità perché ho visto con i miei occhi quanto la fede possa cambiare in meglio la vita delle persone, soprattutto dei sofferenti. Frequentando tutti i giorni persone con fatiche e limiti (fisici o mentali) e le loro famiglie, posso dire di aver visto tanti miracoli. I fondatori delle varie associazioni, come don Oreste Benzi con la Comunità Papa Giovanni, o dei vari movimenti, contribuiscono realmente a cambiare in meglio la vita di migliaia di persone. Questo è come vedere un miracolo ogni giorno! Nella mia carriera, ho scritto per la Rai la biografia di tutti (o quasi) i principali fondatori: è stato un grande onore per me conoscere persone così impegnate e, al contempo, ispirate a fare del bene ai fratelli”.
Cosa pensa di Papa Francesco e del suo impegno per l’uomo e la donna della ‘società fluida’?
“Francesco è un grande Papa. Ma anche un grandissimo uomo, come illustra l’ultima fatica di Andrea Riccardi che racconta la vita di Jorge Bergoglio in Argentina. Fece arrestare e condannare gli assassini del vescovo di La Rioja, Enrique Angelelli, ucciso in Argentina nel 1976 dai militari, la cui morte venne inizialmente spacciata dalla dittatura come ‘incidente stradale’. E’ anche un gesuita che conosce i meccanismi della comunicazione. Lui ha fatto una scelta di campo: quella di dire: ‘siamo in una situazione a rischio, dobbiamo fare qualcosa’. Papa Francesco è uno che prende posizione! In modo netto, senza fronzoli. Potrebbe anche dare fastidio a qualcuno, ma a me piace molto. Io mi sento amata e protetta dalla mia Chiesa! Il mondo dal quale proviene Bergoglio, quello latino americano, insieme all’Africa rappresentano il futuro. Non l’Europa: l’Europa è vecchia e senza figli. Francesco ha inoltre un coraggio straordinario nei confronti delle donne, cosa che ammiro moltissimo. Lui è stato il primo Pontefice della storia a nominare una sottosegretaria donna, suor Alessandra Smerilli, delle Figlie di Maria Ausiliatrice, nominata sotto-segretario per il Settore Fede e Sviluppo del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale lo scorso 24 marzo. In una Chiesa ancora molto ‘maschilista’, è già un grande primo passo. Questo Papa è il futuro!”.
Che ricordo ha di don Oreste Benzi?
“Ho un ricordo meraviglioso di lui. Due anni fa sono stata all’inaugurazione della piazza della stazione di Rimini intitolata a suo nome e, per l’occasione, sono stata ospite di una casa famiglia: è stata un’esperienza molto bella. Di don Oreste ricordo il suo grande amore per la vita e la sua immancabile tonaca lisa, macchiata di olio. Lo ripeto, era un sant’uomo che amava la vita: l’ultima volta che l’ho incontrato – poco prima che morisse – mi ha portata a… mangiare le tagliatelle al ragù! Perché voleva darmi un segnale: la vita è importante. Tutti dovrebbero avere il massimo, specie chi ha già sofferto e ha vissuto l’inferno. Il massimo è dare bellezza, e la bellezza è bontà. La bontà salverà il mondo!”.
Milena Castigli
Fonte: www.interris.it