Ricordi di Sicilia: l’ultimo giorno di scuola del 1967
Era il giugno del 1967, il passaggio dall’infanzia all’adolescenza in una Sicilia che non c’è più. All’ultimo minuto dell’ultimo giorno di scuola esplodeva l’urlo liberatorio, una sorta d’inno alla libertà che saliva proprio dall’interno.
No! Non dal nostro cuore, ma proveniva da qualcosa di più profondo: veniva dalle nostre anime. Ne seguiva una corsa all’impazzata come di una mandria imbufalita che cercava via di scampo.
La libertà era il primo gradino della scala fuori il portoncino della scuola/collegio, al di là c’era la vita. Il sole di giugno e il cielo blu dal colore d’estate davano ragione a così tanta gioia.
Dopo le prime mattine in cui tutti recuperavano quei risvegli difficili, quelle sorti di marce forzate verso quel campo di addestramento che chiamavano scuola, ci si organizzava: Guglielmo portava le carte, Onofrio organizzava maniacalmente tornei di biglie e scacchi, Giancarlo rispolverava il motorino di suo padre, Alberto rosicchiava veloce 5 noccioli di pesca per poter giocare a pugno, Gianni riproponeva aneddoti di improbabili avventure e Gian Paolo rispondeva con le storie di uno zio capace di tutto anche di non apparire mai, ma proprio mai…
Era finita la nostra infanzia, ma non lo sapevamo
D’obbligo era la corsa al mercato che si teneva il mercoledì. Sandaletti di plastica colorata erano parte integrante dell’abbigliamento estive, insieme ai pantaloncini colorati e alle magliette con la reclame di questo o quel negoziante. Quei sandaletti di plastica ci permettevano di fare molte cose: erano buoni per correre, per fare il bagno nel fiume Irminio, per giocare a pallone. Riuscivano anche a rigarci i piedi di sole a strisce che formavano una sorta di disegno tra il bianco del coperto e il nero dello scoperto, e a fine giornata ci regalavano un tesoro sporco che veniva estratto abilmente dalle dita dei piedi in un aiuto fraterno con l’indice della mano. Ne risultava una pappina nera di terra appiccicosa dal sapor di sudore che con sadismo si accostava al naso e ne faceva scaturire apprezzamenti di varia natura, quasi mai lusinghiere.
Il salotto buono, quello dove ci si accucciava a cerchio, era l’angolo della palazzina degli Archi al mattino e l’angolo della palazzina “Cosentini” al pomeriggio, tutto era dettato dall’ombra che una volta studiata non tradiva mai. In quel salotto buono di tanto in tanto ci si sedevano anche delle femmine, vicino al chiosco del padre di Pippo (nostro amico di scorribande) alcune avevano vestiti lindi bianchi o rosa, altre erano vestite come maschietti, ma non ci si badava molto a loro. Gli altri quelli più grandi che sfioravano i 14 anni, quelli sì che ci badavano e rimenavamo stupiti di come osassero atti arditi. Si diceva che i più grandi qualcuna di quelle ragazze le avessero baciate (beh, non proprio quelle, più le loro sorelle che avevano più l’aspetto di donne cresciute) e che qualcuno avesse pure sfiorato la sua lingua contro la loro.
Tant’è, per noi non erano necessarie. Che ne potevano sapere loro di come si costruisce una capanna o di come si cacciavano i nidi dei merli, neppure sapevano costruire un arco né tanto meno una fionda, non possedevano neppure un cane randagio. Qualcuna, però, ci stava sempre tra i piedi, la chiamavamo “maschiaccio “, voleva anche lei fare le capanne e riusciva ad arrampicarsi su qualche ramo basso degli alberi, arrivava addirittura a rotolarsi insieme a noi nell’ erba. Noi la lasciavamo fare e ci accorgevamo che la sua pelle era più rosa della nostra e le sue forme più gentili. Alla fine, qualcuno se ne innamorava e diventava la femmina della banda: dopotutto qualcuno doveva pur tener pulito il nascondiglio!
Il ritorno a casa e la consapevolezza che domani sarebbe stato un altro giorno…
La luce del tardo pomeriggio ci indicava la strada di casa, eravamo guerrieri di ritorno da una lotta, masai che uscivano dalla savana, cowboys disarcionati dai loro cavalli che mestamente tornavano a casa. Qualcuno riportava impressa sulla sua pelle i segni di così dure vicende: braccia graffiate, ginocchia sbucciate, punture di api e vespe…
Fortunatamente quasi nessuno risultava così acciaccato da non poter ripresentarsi alle armi il giorno dopo; sì, perché c’era sempre un giorno dopo!
Non era facile essere fanciulli allora. A volte era assai difficile e ci si ingegnava per cambiare il mondo. Come se ciò era semplice. I giovani di oggi abbisognano di fausti presagi e belle promesse. noi ormai già “vecchi”, che fummo giovani tanto tempo fa, osserviamo con meraviglia e tenerezza l’energia e l’audacia che essi manifestano. Ma, con i tempi che corrono, dobbiamo essere in condizione di fare loro il travaso di esperienze. I giovani, a loro volta, capiranno solo quando avranno completato il proprio cammino esistenziale…
Salvatore Battaglia, Presidente dell’Accademia delle Prefi