L’intervista a padre Giulio Albanese, missionario comboniano, in occasione della XX Giornata Internazionale del Rifugiato
La Giornata internazionale del rifugiato
La Giornata internazionale del rifugiato, indetta dalle Nazioni Unite, viene celebrata ogni 20 giugno per commemorare l’approvazione nel 1951 della Convenzione relativa allo statuto dei rifugiati (Convention Relating to the Status of Refugees) da parte dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Venne celebrata per la prima volta il 20 giugno 2001, nel cinquantesimo anniversario della Convenzione.
Ogni anno l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) seleziona un tema comune per coordinare gli eventi celebrativi in tutto il mondo. Quest’anno il tema è “Insieme possiamo fare la differenza” (Together we can do anything).
Padre Giulio Albanese: il peso della corretta informazione
Padre Giulio Albanese è un sacerdote missionario e giornalista nato a Roma il 12 marzo 1959. Appartiene alla Congregazione dei Missionari Comboniani. Sacerdote dal 1986, ha diretto il New People Media Centre di Nairobi e ha fondato nel 1997 la Missionary International Service News Agency (MISNA).
Collabora con varie testate giornalistiche per i temi legati all’Africa e al Sud del mondo ed è direttore delle riviste missionarie delle Pontificie Opere Missionarie PP.OO.MM. – Missio Italia, Popoli e Missione e Il Ponte d’Oro. Inoltre, è membro del Comitato per gli interventi caritativi a favore dei Paesi del Terzo Mondo della Conferenza episcopale italiana (Cei).
In questi anni ha vinto 19 premi giornalistici e 4 letterari. Nel luglio del 2003 il presidente Carlo Azeglio Ciampi lo ha insignito del titolo di Grande ufficiale della Repubblica Italiana per meriti giornalistici nel Sud del mondo.
L’intervista a Padre Giulio Albanese
Padre, oggi è una data significativa: il mondo celebra la Giornata internazionale del rifugiato. Sono passati esattamente 20 anni da quando fu istituita dall’Onu. Pensa sia ancora attuale?
“Assolutamente sì. Perché a mio avviso nessuno emigra per piacere. Viaggiare per turismo o per motivi di studio non è emigrare! Emigrare significa lasciare la propria patria, la casa, la famiglia…tranciare le proprie radici. Oggi esiste un vasto fenomeno migratorio – non solo dall’Africa ma anche dal Medio Oriente e dal lontano Sud Est asiatico. Sono persone che chiedono fondamentalmente il riconoscimento del loro esistere. La Giornata dell’Onu a loro dedicata è dunque una iniziativa illuminata perché ci fa riflettere sul fatto che le migrazioni riguardano non solo chi scappa, ma il bene comune di tutti i popoli. Non dimentichiamocelo: il fenomeno migratorio è causato spesso da situazioni si povertà estrema, di sopraffazione, di non rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali. Oppure è causato dalle tante, troppe, guerre dimenticate, come quella in Etiopia, nella regione del Tigray. Noi non possiamo stare a guardare dalla finestra questo vasto movimento di ‘mobilità umana’: dobbiamo prendere una posizione”.
Crede che i corridoi umanitari siano una soluzione valida?
“Certamente. Sono favorevole ai corridoi che sono una risposta positiva. Quando si parla di migrazioni credo che sia fondamentale tenere conto dell’illuminato magistero di Papa Francesco”.
In che senso?
“Il Papa – venuto anche lui ‘quasi dalla fine del mondo’ – nella sua enciclica del 24 novembre 2013, Evangelii gaudium [qui il testo completo dell’enciclica, ndr] dice una cosa molto importante: il nostro compito a livello ecclesiale (ma non solo) è quello di innescare dei processi, di creare dei percorsi. Non c’è una risposta univoca all’immigrazione. Quindi, rispetto al tema dei rifugiati, non c’è solo una soluzione, ma dobbiamo tener conto che ci sono una molteplicità di fattori che interagiscono tra di loro. Ad esempio, le problematiche relative alla prima accoglienza o all’integrazione nel tessuto sociale dei Paesi occidentali. Si deve anche tener conto degli scenari che si manifestano in quelle che il Papa chiama le ‘periferie del mondo’, che variano molto da Nazione a Nazione”.
Qual è dunque il primo passo?
“E’ fondamentale la corretta informazione, che è la prima forma di solidarietà. E’ centrale aiutare l’opinione pubblica a conoscere e prendere coscienza di quello che avviene davvero in territori geograficamente e culturalmente distanti”.
Questo non succede già in Italia?
“Non sempre. E non abbastanza. Il sistema mediatico nostrano è concentrato quasi esclusivamente sugli sbarchi in Italia, specie se c’è scappato il morto. Ma raramente vediamo o leggiamo nei (tele)giornali quello che avviene nei Paesi di provenienza! Per esempio, della guerra nel Tigray – lungo la linea di confine tra Eritrea ed Etiopia – non parla quasi nessuno! Stessa cosa per la crisi nella Repubblica Democratica del Congo, dove è eruttato il vulcano Nyiragongo; o del nord della Nigeria o del Burkina Faso; così come del Ciad (dove il Presidente appena rieletto è stato assassinato dai ribelli) o del nord del Mozambico, dove formazioni dello Stato Islamico stanno seminando morte e distruzione. Senza un’informazione precisa di cosa avviene nelle periferie e del perché le persone scappano, i migranti resteranno sempre e solo numeri. L’informazione è la conditio sine qua non per creare una coscienza, una mentalità aperta, globale; per comprendere che tutto ciò che avviene in terre lontane ci interpella. La sfida è dunque soprattutto una sfida culturale, dove l’informazione gioca un ruolo cruciale”.
L’Italia sta vivendo un inverno demografico, con un calo delle nascite mai sperimentato nei 150 anni di storia d’Italia. Crede che l’immigrazione possa venire in auto alla Vecchia Europa?
“Sì, sia per le nascite, sia e soprattutto per la forza lavoro. L’Italia invecchia: ha sempre meno giovani e adulti che pagano le pensioni agli anziani. Gli immigrati portano quella forza lavoro in più che paga le tasse e i contributi anche a noi italiani. Il continente africano ha davvero le carte in regola per soccorrere l’Italia: secondo un calcolo dell’Ocse, i migranti, se messi in regola, darebbero allo Stato più di quanto ricevono in contributi”.
Pensa dunque che l’Africa diventerà nel prossimo futuro l’aiuto di cui necessita l’Europa?
“Sarebbe auspicabile. L’Africa avrà nel prossimi anni un numero sempre maggiore di forza lavoro. L’Europa va verso il declino: noi probabilmente avremo presto bisogno di loro. Il fenomeno migratorio è inarrestabile: o lo governiamo in funzione del bene comune o – visti i numeri – ci sovrasterà”.
di Milena Castigli
Fonte: www.interris.it