Rita Atria diciassettenne di Partanna la mafia l’aveva conosciuta fin da bambina, a 11 anni perse suo padre, pastore affiliato a Cosa Nostra, ucciso in un agguato mafioso. Dopo la sua morte, Rita si legò ancor più a suo fratello Nicola, anch’egli mafioso, ucciso nel 1991.
Troppo dolore per una ragazza così giovane e così lontana interiormente da quella Sicilia di sangue alla quale non apparteneva e non voleva appartenere.
Rita scelse la strada del Bene
Insieme a sua cognata, Piera Aiello la moglie di Nicola Atria, cercò nella magistratura la giustizia per quegli omicidi inaccettabili che la segnarono per sempre.
E la Giustizia si materializzò in Paolo Borsellino: fu il magistrato palermitano a raccogliere tutte le sue rivelazioni, tutte le sue paure e quella solitudine che aveva sempre sentito nella sua vita.
Le rivelazioni di Rita consentirono alla Giustizia di arrestare numerosi mafiosi di Partanna, Sciacca e Marsala. E consentirono a lei stessa di riabilitarsi, di provare a ricostruire una nuova vita, di credere nel suo sogno di riscatto.
Con il giudice Paolo Borsellino nacque fin da subito un legame fortissimo. Come ha più volte affermato sua sorella, il giudice palermitano provava nei confronti della giovanissima donna un grande affetto paterno. Rita era per lui la sua picciridda e Borsellino era per lei il suo confessore segreto, il tutore delicato e amorevole, il padre che la mafia le aveva negato e che la Giustizia, ora, le stava dando.
Il 26 luglio 1992, dopo l’assassinio del giudice Giovanni Falcone e del “suo” giudice Paolo Borsellino, Rita perse ogni speranza e si suicidò gettandosi dal quinto piano del palazzo dove le stava dando protezione la polizia, nella via Amelia di Roma, quartiere Tuscolano.
Tutto, una settimana esatta dopo la Strage del 19 luglio 1992 che costò la vita al magistrato a cui la giovane aveva deciso di confidare cosa c’era dietro alle morti per mano della mafia che avevano colpito la sua famiglia.
“Quelle bombe in un secondo spazzarono via il mio sogno, perché uccisero coloro che, col loro esempio di coraggio, rappresentavano la speranza di un mondo nuovo, pulito, onesto. Ora tutto è finito”.
Così scrisse Rita nel suo diario, insieme a tante altre cose che non sono mai state pubblicate integralmente, pur essendo in parte ricostruite perché la sua vita dolorosa ed emblematica è stata spesso revocata in teatro, nei libri, nei film.
Rita Atria rappresenta per il nostro Paese una luce di speranza non solo per chi senza colpe si ritrova a nascere e crescere in un mondo fatto di male e morte, ma anche per tutti i cittadini che riescono, attraverso la sua tragica storia, a comprendere quanta forza e quanto coraggio sono stati posti sull’altare della Giustizia per permettere all’Italia di liberarsi dal cancro della mafia.
“Finché giudici come Falcone, come Paolo Borsellino e tanti come loro vivranno, non bisogna arrendersi mai, e la giustizia e la verità contro tutto e tutti. L’unico sistema per eliminare tale piaga è rendere coscienti i ragazzi che vivono tra la mafia che al di fuori c’è un altro mondo fatto di cose semplici, ma belle, di purezza, un mondo dove sei trattato per ciò che sei, non perché sei figlio di questa o di quella persona, o perché hai pagato un pizzo per farti fare quel favore. Forse un mondo onesto non esisterà mai, ma chi ci impedisce di sognare. Forse se ognuno di noi prova a cambiare, forse ce la faremo”.
Anche questo scriveva Rita sul diario prima che il dolore e la solitudine ponessero fine alla sua vita, dopo appena tre giorni dal suo arrivo a Roma, sotto la protezione dell’alto commissariato antimafia.
Il CNDDU in occasione del 29° anniversario della morte di Rita Atria intende ricordare la sua straordinaria figura, la quale rappresenta un grandissimo esempio di giustizia e legalità.
La storia di Ritaci spinge, inoltre, a interrogarci sul ruolo delle donne nell’universo mafioso e di come per le donne il percorso di emancipazione dalla società mafiosa sia certamente più difficile rispetto a quello degli uomini.
La giovane e coraggiosa testimone di giustizia, la più giovane testimone di giustizia dell’Italia, è stata un esempio di coraggio civile ed è fondamentale mantenere vivo il suo ricordo e proteggere, attraverso di lei, la nostra memoria storica, perché la storia di Rita Atria non si può scindere dalla storia recente che ha visto il nostro Paese lottare con tutte le sue forze per debellare il sistema mafioso.
Ci sentiamo inoltre in dovere di segnalare un’altra storia terribile di mafia e di infanzia negata, una storia poco conosciuta che riguarda un bambino di 4 anni appena, Andrea Savoca.
Nello stesso giorno, il 26 luglio, di un anno prima il piccolo Andrea rimane ucciso insieme al padre, rapinatore di tir, per ordine del capomafia locale “per colpa di uno sgarro fatto a qualcuno che non doveva essere toccato”. Lo sgarro probabilmente consisteva in alcune rapine di tir che contenevano merci appartenenti a mafiosi.
Andrea, però, come tutte le vittime innocenti di mafia colpe non ne aveva. Come non ne aveva suo fratello Massimiliano, rimasto per fortuna illeso.
Il 26 luglio quindi del 1991 e del 1992 un bambino e un’adolescente smettono di vivere perché la loro storia familiare fu segnata dall’incontro fatale e letale con la mafia.
Invitiamo i colleghi docenti a far conoscere agli studenti il grande contributo che le donne di mafia hanno dato per il riscatto personale e anche dell’intero Paese. E a far conoscere Rita Atria. E invitiamo a ricordare la tragica fine di un bambino innocente senza colpe.
L’hashtag per ricordare sui canali social Rita Atria è #ILCORAGGIODIRITA e per ricordare Andrea Savoca è #UNPENSIEROPERANDREA
Non permettiamo che il suo sacrificio degli innocenti scivoli nell’oblio.
Ricordiamo, soprattutto ai giovani, la storia di Rita, il suo coraggio civile e i suoi 17 anni consegnati a noi tutti per il bene della Giustizia e del Paese.
E Ricordiamo attraverso la storia infelice del piccolo Andrea che troppe volte la mafia ha strappato alla vita bianchissimi gigli dal cuore purissimo.
Prof.ssa Rosa Manco