Il 18 giugno 2021, con un’astensione senza precedenti nella storia della Repubblica (ben il 48% degli aventi diritto non si è recato alle urne), si sono tenute le elezioni presidenziali in Iran, elezioni che hanno visto la vittoria dell’ala più conservatrice e reazionaria del panorama politico iraniano, impersonata da Ebrahim Raisi che, nel prossimo mese di agosto, si insedierà quale nuovo presidente della Repubblica Islamica.
I moderati, raccolti intorno al presidente uscente Hassan Rouhani (che aveva sconfitto Raisi nelle elezioni del 2017), hanno tentato con ogni mezzo, in particolare con la propaganda sui social media, di stimolare il voto popolare contro i conservatori ma con scarso successo visto che, prostrata dagli effetti della grave crisi economica, la metà degli elettori iraniani ha preferito manifestare il proprio dissenso per la situazione generale in cui versa il Paese rifiutando semplicemente di andare a votare.
Durante la campagna elettorale del 2017, Raisi aveva duramente polemizzato con Rouhani per la sua adesione al trattato JCPOA (Joint Comprehensive Plan of Action), l’accordo con i “5+1”(Francia, Cina, Usa, Regno Unito, Russia e Germania) grazie al quale l’Iran accettava di limitare il suo programma nucleare ad usi esclusivamente civili, rinunciando –in cambio di una ripresa degli scambi commerciali e all’abrogazione delle sanzioni- a sviluppare un’arma atomica.
La vittoria di Rouhani, nel 2017, dimostrava che egli aveva il sostegno della maggioranza del popolo iraniano, stanco di dover pagare i sogni di potenza nucleare dell’ala conservatrice con un innalzamento allarmante dei livelli di povertà; tuttavia la percentuale non indifferente dei consensi raccolti da Raisi, il 38%, era lì a dimostrare che l’anima reazionaria della Repubblica Islamica era ancora viva e vitale.
L’improvvida iniziativa del presidente Trump, che nel 2018 ha ritirato gli Stati Uniti dal JPCOA e inasprito le sanzioni contro Teheran, ha indubbiamente giocato poi a favore di Raisi che, agli occhi dell’elettorato più conservatore, è apparso come l’unico strenuo difensore della causa iraniana contro l’assedio degli occidentali, alleati con il nemico storico dell’Iran, Israele.
Per tentare di comprendere come potrà svilupparsi la strategia di politica interna e internazionale dell’Iran di Raisi, che è bene ricordare è un pupillo della Guida Suprema, Alì Khamenei, massima autorità religiosa del Paese ed esponente di primo piano dell’ala più ortodossa del regime teocratico, occorre partire dalla biografia di questo personaggio che nel prossimo quinquennio sarà comunque un protagonista delle relazioni internazionali mediorientali.
Nato 61 anni fa nella città di Mashad, Ebrahim Raisi è entrato nel 1975 nel prestigioso seminario di Qom, massimo istituto di cultura e di insegnamento della dottrina islamica-sciita dell’Iran e centro di elaborazione dell’ideologia della “velayat e faqih”, la “Guardiania della legge”, grazie alla quale l’Ayatollah Khomeini allora esule a Parigi riuscì a mobilitare le masse islamiche contro lo Scià Reza Palhevi, abbattendone il regno con la rivoluzione del ’79.
Dopo la vittoria khomeinista, alla quale aveva dato il suo entusiastico supporto, il giovane Raisi entrò nell’ufficio del procuratore speciale che si distinse per la sistematica eliminazione di migliaia di esponenti del precedente regime e nella brutale repressione dell’irredentismo curdo.
Dopo essere stato nominato nel 1985, per lo zelo dimostrato nella liquidazione degli oppositori del regime teocratico, vice procuratore della capitale Teheran, Ebrahim Raisi venne incaricato dall’Ayatollah Khomeini di dirigere un comitato di quattro membri, soprannominato “il Comitato della Morte” avente il compito di eliminare tutti i dissidenti allora rinchiusi nelle carceri iraniane.
Il “Comitato della Morte” presieduto da Raisi è stato direttamente responsabile dell’uccisione di 8000 dissidenti prigionieri nelle carceri del regime e quando venne interrogato sul suo coinvolgimento nell’opera di repressione, Rasi rispose:” se un giudice o un procuratore hanno difeso la sicurezza del popolo essi debbono essere apprezzati per il loro lavoro… Io sono fiero di aver difeso i diritti umani (sic!) in ogni incarico che ho ricoperto”.
Grazie all’impegno profuso nella repressione degli antikhomeinisti, veri o presunti, sterminati negli anni ’80, per la quale il nuovo presidente iraniano è attualmente sotto inchiesta da parte degli investigatori delle Nazioni Unite, Raisi ha fatto una brillante carriera: dall’89 al ’94 ha ricoperto l’incarico di Procuratore Capo nella giurisdizione della Capitale; nel 1994 è stato nominato Capo dell’Ispettorato Generale e, poi, Procuratore Generale Della “Corte Speciale per il Clero”, organi incaricati di sovrintendere sull’ integrità di tutta l’amministrazione dello stato e dei suoi componenti; nel 2004 è stato nominato primo vice della più alta magistratura iraniana e, in questa veste, si è distinto nella spietata repressione delle proteste seguite alle elezioni presidenziali del 2009.
Nel 2016, la Guida Suprema Khameni ha nominato Ebrahim Raisi “Custode del santuario di Ali Al Rida “nella sua città natale di Mashad, un incarico che gli ha messo a disposizione beni per miliardi di dollari collocati in un “fondo caritatevole” da usare senza controlli o supervisione.
In quest’ultimo ruolo, Raisi si è dimostrato incorruttibile, confermandosi agli occhi dell’opinione pubblica più conservatrice come un nemico della corruzione e fedele propugnatore degli ideali khomeinisti, argomenti questi che hanno giocato un ruolo fondamentale nelle elezioni del 18 giugno scorso.
Un altro importante tema agitato da Raisi durante la recente campagna elettorale contro il suo predecessore Rouhani è stato quello dell’ adesione iraniana al JPCOA che dal 2015 avrebbe dovuto limitare le ambizioni atomiche di Teheran.
In base all’accordo, l’Iran dovrebbe diminuire in modo sostanziale i suoi depositi di uranio arricchito del 98% e ridurre il numero delle centrifughe nei prossimi 13 anni, mentre nei prossimi 15 anni dovrebbe limitare la percentuale di uranio arricchito al 3,6% del totale.
Nel 2018 gli ispettori della IAEA, incaricati di verificare la compliance iraniana ai termini dell’Accordo, hanno espresso dubbi motivati sulla reale riduzione dell’impegno iraniano nella corsa al nucleare e il 30 aprile 2018, in una dichiarazione congiunta Stati Uniti e Israele hanno formalmente accusato l’Iran di aver tenuta nascosta agli ispettori internazionale la parte del programma nucleare dedicata allo sviluppo di armamenti atomici.
Nei mesi successivi, il presidente americano Donald Trump dopo aver denunciato il JPCOA ha ripristinato l’intero programma di sanzioni contro l’Iran e contro le nazioni che intrattengono rapporti commerciali con il regime degli Ayatollah.
La mossa di Trump è stata criticata dagli altri paesi aderenti all’Accordo JPCOA e da molte cancellerie occidentali perché l’ulteriore impoverimento della popolazione iraniana ad opera del regime sanzionatorio avrebbe aumentato i consensi (come poi avvenuto nelle elezioni presidenziali) popolari di chi, come Rais, si è sempre dichiarato nemico giurato del “Grande satana” americano.
Israele, dal canto suo, ha continuato a boicottare, con operazioni clandestine che hanno finora portato all’eliminazione fisica dei principali responsabili tecnici del programma atomico e al sabotaggio cibernetico delle apparecchiature ad esso dedicate, gli ulteriori progressi della ricerca nucleare di Teheran, avvertendo i responsabili del regime che Gerusalemme non consentirà mai alla Repubblica Islamica di dotarsi di armi nucleari.
Un “Iran nucleare” per Israele sarebbe una minaccia mortale: L’Iran è presente fisicamente con l’Hezbollah libanese stabilmente insediata ai confini settentrionali israeliani ed è altrettanto fisicamente presente in Siria con un proprio contingente militare.
Per Gerusalemme la possibile dotazione di armamenti nucleari da parte dell’Iran costituirebbe un “clear and present danger”, tale da rappresentare un giustificato pretesto per una guerra preventiva che sconvolgerebbe tutta la regione.
Nel prossimo mese di agosto, quando si insedierà nella carica di Presidente della Repubblica Islamica, Ebrahim Raisi, che in campagna elettorale aveva affermato: ” le nostre azioni debbono essere destinate a migliorare le condizioni di vita del popolo e a ristabilire la fiducia perduta”, si troverà ad affrontare in primo luogo una crisi economica senza precedenti, con l’inflazione al 30% e il 50% della popolazione sotto i livelli di povertà.
Essendo un “duro” ma anche un pragmatico, oltre che un incorruttibile, Raisi potrebbe decidere di riaprire le porte al negoziato JPCOA, contando anche sulla sponda offerta dal nuovo presidente americano Joe Biden, allo scopo di allentare il cappio delle sanzioni internazionali che strangolano l’economia iraniana.
Per far questo dovrebbe rinunciare all’ambizione nucleare, scontentando l’ala dei “principlist”, la fazione più reazionaria dello spettro politico iraniano che finora lo ha sostenuto senza riserve.
Una strada difficile per il nuovo presidente che dovrà dimostrare in concreto di volere la distensione con l’occidente e, nel contempo, fronteggiare le probabili reazioni dell’integralismo interno.