LA GIUSTA LUCE DEI COLORI è la personale di pittura di Ottavio Rossani che esporrà alcune sue opere presso il Fondo Verri di Lecce dal 6 al 12 settembre 2021. L’inaugurazione è prevista per il giorno 6 settembre 2021 alle ore 19,30. L’artista sarà presentato dal Prof. Lucio Galante (critico e storico dell’arte). Il catalogo è stato editato da I Quaderni del Bardo Edizioni di Stefano Donno. La mostra è visitabile dalle 18,00 alle 21,00. Evento realizzato e promosso dal Fondo Verri di Lecce
«Ho tentato di tradurre in segni visibili, confrontabili, verificabili, correggibili, l’ansia frenetica di un’attesa connaturata al passaggio, al viaggio, alla scoperta. Attesa cominciata non so quando; attesa finora senza approdo (..) Il filo centrale, continuo, ininterrotto, fluente, fu, e continua ad essere, la poesia: nella ricerca combattiva di forma/contenuto, di segno/valore, di significante/significato. Nacque, e si sta ancora dipanando, una storia lunga una vita. Come una geometria, vissuta e disegnata, con intersezioni di spazi illogici, di salti linguistici e progressioni ritmiche, che ritengo, presuntivamente, di inusuale fattura». (OTTAVIO ROSSANI)
Ottavio Rossani (Sellia Marina, 1944) è poeta, scrittore, pittore, regista teatrale. Abita a Milano. Laureato in Scienze politiche e sociali, fa il giornalista (40 anni al Corriere della Sera prima redattore, poi inviato speciale). Si è occupato di politica, economia, cultura, costume, cronaca. Ha intervistato umili e potenti, in Italia e all’estero. Ha viaggiato nei diversi continenti, soprattutto in America Latina.
Ha pubblicato le raccolte di poesia: Le deformazioni (1976), Falsi confini (1989), Teatrino delle scomparse (1992), Il fulmine nel tuo giardino (1995), Hogueras (1998), L’ignota battaglia (2005), Riti di seduzione (2013); i saggi: L’industria dei sequestri (1978), Leonardo Sciascia (1990), Le parole dei pentiti (2000), Stato società e briganti nel Risorgimento Italiano (2002); il racconto storico: Servitore vostro humilissimo et devotissimo (1995). Dipinge: al suo attivo molte mostre personali e collettive. Dal 2007 è responsabile del blog POESIA sul Corriere della Sera on line (poesia.corriere.it).
Collabora a diversi giornali, riviste e siti web, con editoriali sociopolitici e critiche letterarie. Tra le sue ultime pubblicazioni Soverato (I Quaderni del Bardo Edizioni di Stefano Donno, Lecce, 2019) e La Luna negli occhi (Nino Aragno Editore, Torino, 2020)
INTERVENTO CRITICO DEL PROF. LUCIO GALANTE
Rossani si è affacciato nel mondo dell’arte pittorica nei primi anni novanta (la sua prima mostra personale è del 1992 al Barcone delle Scimmie a Milano). Nel presentarlo Gilberto Finzi ne ha tracciato, se così si può dire, brevemente un primo percorso, segnando il passaggio dalla sua esperienza letteraria – va ricordato al riguardo che aveva già all’attivo tre raccolte di poesie (vedi profilo biografico) – a quella dell’arte visiva, come fosse quest’ultima la naturale trasformazione della prima.
Va anche subito detto che la decisione di intraprendere il suo nuovo percorso è stata accompagnata da una quasi naturale presa di coscienza delle potenzialità visive della scrittura e dalla piena cognizione di causa delle problematiche tecniche che la nuova esperienza comportava, ben sapendo che il mancato percorso formativo (scolastico e accademico) non lo esimeva dalla necessità di conoscere gli strumenti del mestiere, cosa che egli ha dovuto fare.
Si dà il caso, al riguardo, che nel pieghevole edito in occasione della citata personale figurasse un suo testo dal sintomatico titolo “un sogno a colori”, che oltre a essere un riscontro probante delle sue capacità scritturali, altro non è che la descrizione (stavo per dire la storia) della scoperta graduale della natura e delle potenzialità visive della scrittura.
La lettura di quel testo è, infatti, decisamente illuminante riguardo alla piena consapevolezza delle scelte avviate e in corso. Intanto va rilevato che, a vantaggio del critico, quel testo egli lo ha articolato in sei punti (o brevi paragrafi), dei quali il terzo e il quarto sono indubbiamente esplicativi dei suoi inizi, per cui ritengo utile citare almeno due passaggi: «Ho tentato di tradurre in segni visibili, confrontabili, verificabili, correggibili, l’ansia frenetica di un’attesa connaturata al passaggio, al viaggio, alla scoperta. Attesa cominciata non so quando; attesa finora senza approdo».
«Il filo centrale, continuo, ininterrotto, fluente, fu, e continua ad essere, la poesia: nella ricerca combattiva di forma/contenuto, di segno/valore, di significante/significato. Nacque, e si sta ancora dipanando, una storia lunga una vita. Come una geometria, vissuta e disegnata, con intersezioni di spazi illogici, di salti linguistici e progressioni ritmiche, che ritengo, presuntivamente, di inusuale fattura».
E il quinto, che indica il punto di arrivo, la scoperta, cioè, del colore, il mezzo espressivo divenuto, poi, definitivo, punto che conviene riproporre in buona parte: «Negli scarti, nei vuoti, nelle tensioni impossibili a sciogliersi in una taumaturgia della parola, fecero capolino geroglifici, calligrammi, schizzi, linee e macchie, e perfino figure e oggetti, con l’uso di inchiostri colorati…Rossi, gialli, verdi, azzurri, rosa. Tinte spesso accese, talvolta offuscate. Ma sempre fiotti di splendore nell’uniformità densa del “bianco e nero”… I taccuini e più tardi i fogli d’album, divennero campi di battaglia o scenari di inquietudini a colori». Detto testualmente, ancora da lui, la fase sperimentale lo aveva portato all’«impiego di tutte le tecniche decorative e pittoriche: colori ad acqua, acrilico, tempera, matita, carboncino, china, collage».
Questa scelta di accompagnare la ricerca espressiva con testi scritti Rossani l’ha ripetuta anche in occasione delle mostre del 2000 e del 2006, dando come titolo, rispettivamente, “Dal diario di viaggio” e “Notizie dal paese dei colori”. Per non essere indotti dai soli titoli a inevitabili equivoci, è bene chiarire subito a quale “viaggio” si riferisce nel primo. È il viaggio fatto nella ricerca espressiva, nel mondo delle forme e dei colori dal 1992, anno del suo esordio ufficiale, al 2000, quando esso è diventato «Viaggio tra varchi, sorprese, ferite, ingenuità.
Le visioni si sfrangiano una sull’altra…Depurare…Lasciare liberi i colori…Trovare l’alfabeto delle immagini mutanti…Reperti di memoria che si negano a razionale catalogazione…». Il secondo titolo è semplicemente dichiarativo, forse anche asseverativo, dando per vera l’esistenza del paese dei colori, e bisogna leggere le prime frasi del testo per avere indicazioni più precise al riguardo: «Ho trovato il “paese dei colori”. Ogni tanto stacco tutti i contatti e mi rintano lì. Non è un luogo, non è uno spazio, non è fisico. È un sentimento, è un clima, è una luce. È un magma da attraversare, da decifrare, da descrivere, io lo vedo bene». L’ultimo sintagma – sia detto per inciso – è ulteriore conferma della consapevolezza delle problematiche tecnico-espressive che non lo ha mai abbandonato. Quest’ultimo testo (non mi risulta che ne abbia fatti altri) è veramente un diario di viaggio perché sono indicate le date e i luoghi dei paesi visitati (non si dimentichi il suo mestiere di giornalista), in particolare l’Argentina, il Kenya, la sua Soverato.
Non so se questi suoi testi, dei quali per dovere critico ho provato a comprendere la funzione, aiutano a interpretare le sue opere. Quello che emerge è che è stata costante, ribadisco, la riflessione sui procedimenti tecnico-espressivi. Basta leggere il diario del 29 aprile 2003, riguardante il suo viaggio in Patagonia.
Le sue osservazioni sulle caratteristiche paesaggistiche sono sempre in funzione della loro traduzione visiva, anche quando nascono dalla interpretazione letteraria: «I colori si sperdono nel bianco accecante dei ghiacciai perenni. Il famoso Perito Moreno acceca coi riverberi azzurrini della sua massa maestosa… È un ghiacciaio perenne che sembra dover sprofondare da un momento all’altro nel lago facendo schizzare in alto tutta l’acqua che si disperderebbe sulla pianura, allagando e distruggendo. Pioveva, e il cielo era scuro. I colori non sono venuti.
Sono rimasti nella memoria. Li sto ancora cercando». Ecco, dunque, il tema ricorrente, il colore, e la giusta definizione di “paese dei colori”, «che è coscienza critica», dalla quale «forse un giorno…arriveranno i segnali appropriati». E stando allo stesso diario, qualcosa accade il 12 febbraio del 2006: «Feconda sequenza di giorni nella luce invernale ma intensa di Soverato, dove sono arrivato da qualche giorno. Getto giù con frenesia molti flussi cromatici. È commovente la trasmigrazione fantastica del sentimento che mi stimola…I quadri sono d’oro, d’argento; il dettato segnico è accentuato, è come se un cratere stesse gettando fuori lava e lapilli».
Questa lunga premessa costruita con le parole dell’artista m’è sembrata necessaria per mettere un punto fermo sulle sue scelte espressive, che, alla luce dell’esame delle opere è costituito dalla scelta del colore come mezzo privilegiato. Del resto a legittimare la sua scelta basterebbe guardare al lungo percorso dell’arte del Novecento, a partire dalla stagione delle cosiddette ‘avanguardie storiche’.
Ad esempio, non credo che Rossani non abbia avuto modo di vedere gli sviluppi delle tendenze astrattiste, ne è prova, se si vuole, la citazione su riportata del 1992, «Negli scarti, nei vuoti…ecc.». Non credo, perciò, che sia azzardato affermare che un aiuto nelle sue scelte espressive glielo abbia dato, chessò, Kandinsky. Così come nelle accensioni cromatiche potrebbe averglielo dato l’ampio bacino dell’espressionismo, non esclusi i fauves.
Certamente a confronto con le esperienze artistiche internazionali degli anni Novanta la sua visione poteva apparire attardata, ma già alla fine degli anni Settanta e gli inizi degli Ottanta v’era stata una reviviscenza proprio del fare pittura “tradizionale” e con il nuovo millennio si è riconosciuta la legittimità di percorrere liberamente tutte le strade possibili, a condizione dell’accertata autenticità delle scelte.
Non ho inteso e non intendo sopravvalutare i suoi scritti citati, ma non v’è dubbio che anche in essi si coglie l’autenticità della sua vocazione artistica (ha sempre dipinto, ma solo dalla fine degli anni Ottanta ha deciso di non distruggere più i manufatti, come aveva fatto fino ad allora), perché in essi v’è come la stessa tensione poetica che li fa apparire il commento più appropriato delle opere. Si legga, ad esempio, quello che egli scrive della visita in Kenya: «Le fiamme in Kenya di notte non sono brillanti, sono percorse da vene azzurre, come gocce che scolano dal profondo blu del cielo. Non è facile scovare il colore più rispondente al sentimento di solitudine e privazione che provoca un incendio. Ho tentato con un rosso vermiglio e qualche sprizzo di cobalto. Non mi interessa il paesaggio, ma l’urlo che proviene dalle viscere dell’uomo sconfitto».
Tra le opere presenti in mostra v’è Incendio in Kenya, datato 2006, non sfuggirà all’osservatore che il dipinto non è una pura illustrazione dell’evento, la sua esecuzione, d’altronde, risale a quattro anni dopo la sua visita in quel paese. Proprio questo dipinto torna utile per affrontare la questione della titolazione delle opere. A porla è stato per la prima e unica volta Vincenzo Guarracino nella presentazione alla personale del 2006.
A conclusione del suo testo, riconoscendo all’artista un operare ormai “pienamente visivo” soprattutto nelle ultime opere, vi aveva visto «un affidarsi alla flagranza del colore-immagine, o se si preferisce dell’immagine colore, di nient’altro desiderosa o bisognosa che di un semplice cartiglio onomastico o denotativo (chessò, Incendio in Kenya, Tempesta a Ischia, Luci di Montreal, La bellezza nuda nella città buia) o forse nemmeno di quello, quando l’eloquenza dell’immagine (come in Crocifissione rossa) già di per sé denuncia ragioni e tensioni, appagata della vitalità della propria esistenza come approdo e conquista di una matura autonomia espressiva».
La questione non è di poco conto, dacché l’artista ha sempre fatto ricorso ai titoli, e non sempre sono stati messi solo per battezzare le opere, anzi alcuni richiederebbero un surplus esplicativo. C’è, infatti, una qualche differenza tra Incendio in Kenya e Panoplia molecolare, o fra Tramonto in palude e Ipotesi evoluzionistica della vita per la futura generazione, o ancora tra La donna del sogno o Dormiente in città e Onde subliminali.
Ciò che va osservato è che il titolo è sempre legato all’aspetto formale dell’opera, anche quando appare puramente descrittivo, come Incendio in Kenya. Nel caso di questo dipinto può essere utile riprendere ciò che ha annotato l’artista a proposito di quell’evento come ho già scritto sopra. Parole chiare, come si può rileggere, che sgombrano il campo dall’equivoco “descrizione”.
Egli avrà pure osservato il fenomeno, ma la sua traduzione visiva è ben lungi dall’intenzione di descriverlo. Pianto blu potrebbe essere il titolo di un dipinto fauve, in realtà è un forte richiamo al colore blu, non un suggerimento per il contenuto, la sua stesura segue andamenti lineari irregolari che si incrociano e si intrecciano con quelli degli altri colori, gialli, bianchi, arancione, su un sottofondo uniforme azzurro, creando un dinamismo continuo, al quale contribuiscono anche le pennellate reiterate.
Unico motivo statico è quella sorta di vassoio bianco che contiene un oggetto che ha l’aria di un indefinibile frutto (un brano di natura morta?). Nel dipinto La donna del sogno proprio la specificazione “del sogno” implica un di più di analisi, pena il rischio di una interpretazione riduttiva. Quando il titolo indica un soggetto, la tentazione, in sede di lettura, è quella di riconoscerne l’iconografia, dimenticando che la traduzione verbale di una immagine non sarà mai in grado di restituirne la ricchezza.
Si sa che i sogni non sempre sono visioni nitide e possono anche diventare minacciosi e le figure che vi compaiono perdere la loro consistenza. La riduzione della donna al solo suo capo (per sineddoche?) imprigionato in un intrico di linee è forse la metafora di un desiderio inappagato? Certo è che a dominare sono i tracciati lineari, che si intrecciano, accentuando l’aspetto visionario e irrazionale del tema.
Anche in Tramonto toscano su un albero secco, il titolo potrebbe indurre a riconoscervi un “paesaggio”, ma è fin troppo evidente che la traduzione cromatica della secchezza dell’albero, elemento sul quale pone l’accento, non ha niente a che vedere con il colore che si suole definire locale, posto, tra l’altro, che l’orchestrazione cromatica di tutto il resto veramente ricorda, nella sua intonazione ‘accesa’, l’arbitrarietà delle visioni ‘fauves’ ed espressioniste. Del resto che non gli interessasse il “paesaggio” lo aveva dichiarato esplicitamente, e proprio di fronte alla paesaggistica visione di un incendio. Ad esercitare la funzione comunicativa sono allora tutti i colori, che egli ha trovato “giusti” e li ha elaborati nella “giusta luce”, come s’era proposto di fare parlando del “paese dei colori”.
Si sa che la questione di fondo dell’arte contemporanea è stata ed è tuttora quella del senso o significato, questione divenuta estremamente problematica con l’affermarsi dei linguaggi astratti. È vero che la critica è stata sempre propensa a elaborare categorie nuove per classificare o anche denominare singole tendenze ed esperienze formali, ma questo non si è rivelato il modo migliore per giungere all’interpretazione della singola opera.
Per un’opera come Dormiente in città può tornare utile precisare che figurazione e astrazione convivono, ma ciò che conta è che nell’aspetto formale va cercato il senso dell’immagine, tanto più che in questo caso il soggetto (che è ben visibile) è un soggetto antico (di figurazioni con nudo femminile disteso o sdraiato è piena la storia dell’arte). La figura è come ridotta alla sua pelle, quasi diafana presenza che trae ristoro dal sonno su un giaciglio che sembra un insolito arcobaleno. Si dovrà, allora, anche precisare che è inutile cercare, stando al titolo, la città, e che la dimensione del sonno non è più quella fisica, avendo questo lasciato il posto al sogno.
Le altre opere del 2007, in particolare Elementi primordiali 1 e 2, Dinamismo molecolare 2, che si collegano a Circuito emozionale del 2006, sembrano un passaggio ulteriormente liberatorio dal punto di vista linguistico-espressivo, essendo evidente la riduzione segnica del colore, che rimane comunque elemento costitutivo della forma; ciò si manifesta in modo palmare guardando in successione le versioni 1 e 2 di Elementi primordiali e la prossimità della prima al dipinto Circuito emozionale.
Non è inopportuno, però, riprendere ora il discorso sui titoli. Presi a sé rimandano al campo delle scienze, ma non sfugge la loro stretta relazione con le soluzioni formali. Si pensi, ad esempio, al citato Onde subliminali. La parola ‘onda’ ha un diretto riscontro formale nell’andamento ondulato delle due strisce di colore ‘fluo’, che staccano in modo netto nell’insieme compositivo, tutto giostrato su rapporti cromatici. Ma a giocare un ruolo dal punto di vista del senso è la qualificazione delle onde, definite ‘subliminali’. Per cui la vera impresa è capire cosa le rende tali.
Non basta, allora, sostenere (Vincenzo Guarracino) che l’artista a partire dalle opere del 2006, era giunto all’approdo e conquista di una “matura autonomia espressiva”, perché il rischio sarebbe quello di vedere in esse un puro gioco cromatico, detto diversamente pura decorazione. Anche in Dinamismo molecolare potremmo essere tentati di riconoscere le molecole e il loro dinamismo, ma non v’è chi non veda che il titolo in realtà è esso stesso parte del processo di ‘invenzione’ e ‘realizzazione’ dell’opera, divenendo perciò la chiave per coglierne il senso, che a mio modesto avviso consiste nel chiaro riferimento ironico alle certezze della scienza. Una ulteriore conferma, al riguardo, sono i due dipinti Elementi primordiali 1 e 2, che vorrebbero essere una sorta di classificazione, tutta giocata sulla loro traduzione cromatica.
Lucio Galante
Febbraio 2020
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