Carbonia Film Festival – How To Film The World è alla sua terza edizione. Ospite d’onore Alexander Nanau; il regista rumeno ha presentato Collective – opera che gli è valsa una doppia candidatura agli Oscar 2021 per miglior film straniero e miglior documentario.
L’inchiesta
Presentato alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2019, Collective indaga sulla corruzione del sistema sanitario in Romania degli ultimi anni a partire da un fatto di cronaca, ovvero l’incendio alla discoteca Colectiv a Bucarest, che causò la morte di 27 persone.“Dovunque ci sia corruzione, le persone hanno paura di non avere realmente il controllo sulle proprie vite. Abbiamo deciso di inserire l’incendio all’inizio del film a significare che la vita delle persone può cambiare in pochissimi secondi” – afferma Nanau.
Catalin Tolontan, il giornalista che ha avviato l’inchiesta, commenta: “Inizialmente abbiamo tutti creduto alla versione ufficiale, che i pazienti ustionati avrebbero ricevuto cure al pari di quelle disponibili in Germania”.
Quando viene appurato che in tutti gli ospedali rumeni i disinfettanti forniti dall’azienda Hexi Pharma sono diluiti e dunque inefficaci, la mancanza di risposte trasparenti da parte del Governo e il sarcasmo dietro cui si trincera il Ministro della Salute Patriciu Achimas-Cadariu (“a chi avremmo dovuto far fare i test di controllo, agli extraterrestri?”), generano crescente sbigottimento.
Dall’iniziale impossibilità di dialogare con le istituzioni, le telecamere riescono poi a penetrare la sala consigliare, capeggiata dal ministro entrante Vlad Voiculescu – volto del rinnovamento, già impegnato in associazioni di tutela ai diritti dei pazienti – il quale coinvolge stampa e testimoni nel processo di risanamento della sanità Rumena, consentendo a Nanau di filmare le sessioni.
“Al tempo del film avevamo la possibilità di entrare nel sistema, c’erano persone trasparenti, ora hanno maggior consapevolezza del fatto che hanno tutto l’interesse nel mantenere il sistema ancora più impenetrabile” – spiega il regista.
Si è trattata infatti di una breve parentesi di apertura nello scenario del potere, poiché a seguito delle elezioni politiche del 2019 i Social Democratici hanno ripreso il controllo inasprendo la stretta sulle informazioni.
“Voiculescu – prosegue – è stato anche rieletto, ma col caso Covid ha denunciato l’esistenza di centri vaccinali segreti riservati ai politici ed è stato cacciato nuovamente. I riformisti vengono ulteriormente messi da parte ora, nonostante i liberali ci si fossero alleati ingannando le fasce più giovani dell’elettorato.
Con i fondi europei che stanno arrivando per fronteggiare la crisi, la posta in gioco è alta e il potere non vuole ingerenze. Le persone corrotte del film sono le stesse che ora stanno gestendo la situazione Covid in Romania; siamo attualmente terzi al Mondo per numero di contagi e abbiamo il maggior numero di morti”.
Il Film
La stessa diffusione del film in Patria non ha avuto vita facile, “è stato imposto un embargo tramite mazzette, affinchè i media sia pubblici che privati non parlassero del film. Lo Stato ha stanziato fondi per fronteggiare l’emergenza sanitaria, ma in realtà si tratta di tangenti a beneficio di quanti si impegnino nella costruzione di una narrazione edificante per l’immagine del Governo”.
Benchè i fatti raccontati siano reali, Collective è prima di tutto un’opera cinematografica –
“il film in sé non è inchiesta. L’ho fatto con l’idea di far identificare lo spettatore con la storia raccontata, è arte e attraverso essa pongo uno specchio davanti alla società” – ribadisce Nanau.
Un documentario carico di significati, bilanciato nelle immagini evocative, forte dei suoi simboli, come nella scena dello shooting fotografico, con la ragazza sopravvissuta (Tedy Ursuleanu), che posa per l’obbiettivo tra la cenere, si esercita con una mano protesica e saluta la madre, la quale in preda a sentimenti contrastanti si asciuga le lacrime.
“Mi piaceva molto la figura della ragazza, perché non voleva che il potere che le ha rovinato la vita la definisse in quanto vittima. Non c’è in lei desiderio di vendetta e rappresenta una risposta diversa, una soluzione al conflitto fra vecchie e nuove generazioni, che è la contraddizione in atto nel mio Paese” – conclude Nanau alla conferenza stampa del Carbonia Film Festival.
L’intervista al Direttore Artistico di Carbonia Film Festival
Proprio nella prospettiva della rassegna “Come Filmare il Mondo”, abbiamo interpretato il film nella sua dimensione meta-comunicativa. A tal proposito abbiamo intervistato il Direttore Artistico Francesco Giai Via.
Nel film emerge in modo preponderante la dimensione del linguaggio. Fin dalla primissima sequenza c’è un riferimento chiaro a un “Errore di Comunicazione” fra reparti ospedalieri, che nella versione ufficiale avrebbe determinato la morte dei pazienti.
È evidente l’intento deresponsabilizzante e manipolatorio, l’abbondanza di tasselli mancanti nella ricerca della verità.
Di contro, lo stile adottato dal film tende a mostrare, al fine di fugare ogni ambiguità sugli snodi della vicenda e restituire potenza, inequivocabilità e dignità ai dettagli. Penso alle lenzuola sui volti dei pazienti; prima usate dal personale per nascondere le ferite, poi strumento di disvelamento liberatorio dei ritratti nella mostra fotografica dedicata ai sopravvissuti.
Cosa pensa del modo in cui il documentario di Nanau ha perseguito questo equilibrio fra cronaca e concetto?
Collective ha segnato in modo molto forte, a livello globale, questi anni a cavallo della Pandemia. Alexander è un regista estremamente rigoroso ed esigente. Rispetto a un tema così gigantesco ha scelto un approccio da persona che fa cinema; ha preso gli strumenti del linguaggio cinematografico e ha costruito un’opera sul giornalismo, ma non giornalistica, cosa secondo me molto importante su cui l’edizione “How to Film the World” ha voluto riflettere.
E’ stato molto importante, per un evento di cinema che racconta la realtà, averlo come ospite, è estremamente preciso nel definire fino a quale punto si utilizza un mezzo piuttosto che un altro.
Il Giornalismo ha un suo linguaggio, un suo metodo e delle finalità che non sono quelle di Alexander e non sono quelle del cinema. Un film come questo, a chi riesce a leggerlo con attenzione, rende estremamente evidente l’autonomia dei linguaggi e i rispettivi obiettivi.
Rimane un grande film sulla corruzione e via dicendo, i temi sono tanti, ma sempre in un’ottica di costruzione dei personaggi e storie nei quali gli spettatori possono o meno riconoscersi e trovare una forma di narrazione molto diversa dalla cronaca giornalistica – che invece deve sempre più tentare di costruire catene di fatti, mentre in un film sono altri i fattori che entrano in gioco; il modo di vedere e interpretare la vita, il mondo, le persone.
In una scena, Voiculescu spiega alla sopravvissuta che “in questo scenario di corruzione c’è un limite a quello che può fare un Ministro”. Il politico si rivolge in extremis al simbolo in carne ed ossa delle sue lotte, mentre il ritratto della ragazza è affisso nell’ufficio – circostanza che le scelte di regia e montaggio non mancano di sottolineare. Per la sua esperienza, anche come docente e critico cinematografico, quanto è importante per un documentario affidare il suo storytelling ai simboli?
Ogni regista ha una sua risposta. Quando parli con registi che partono dalla realtà, aldilà di alcune premesse che potrebbero sembrare simili, poi le finalità e i metodi sono molto diversi; si deve sempre partire dal singolo testo. Alexander si fa osservatore di cose che sono già lì e potrebbe forse rispondere che il senso sta già nelle cose, bisogna poterlo leggere e decifrare.
Parte della sua funzione è anche raccontare quegli elementi che collegano le cose per metterli di fronte al pubblico. Sebbene i dettagli che ha filmato non siano stati preparati da lui, il fulcro drammaturgico della scena era sicuramente quello, la forza di ciò che stava accadendo fra quelle persone nel descrivere la situazione che stavano vivendo. A partire dal cinema del reale, poi, ci sono registi che hanno visioni diametralmente opposte.
Nelle parole del giornalista Tolontan, “non c’è nessuno scopo finale in questo mestiere, se non dare alle persone un po’ di conoscenza in più sulle forze che modellano le nostre vite”. Pur con le dovute specificità, condivide lo stesso principio in quanto operatore culturale?
Sì, c’è da dire in quel caso si tratta di un giornalista che parla in un contesto politico estremamente difficile – non che il nostro non lo sia – ma definisce quella che ritiene essere la sua funzione nella società.
Forse noi facciamo ancora in parte un altro mestiere, più vicino a quello dei registi, con implicazioni forse meno potenzialmente dirette rispetto alle cose di fronte alle quali ci poniamo, ma sicuramente rivolte alle persone, che attraverso il nostro lavoro devono provare a confrontarsi con varie forme di racconto. Questo ha conseguenze sì meno dirette, rispetto al mestiere del giornalismo, ma che magari lavorano più sul lungo periodo.
In questa fase di crisi pandemica caratterizzata da particolare animosità, in cui è difficile farsi portavoce fino in fondo di determinati contenuti, si è posto il problema del contesto sociale di fruizione?
Un po’ sì, devo dire che però è anche una conseguenza. Si parte dalle cose che ci piacciono e che possono avere un interesse anche per gli altri, non c’è mai un calcolo a tavolino, poi chiaramente so che è meglio mettere insieme alcune cose piuttosto che altre – ma perché sono io in primis a ritenerle più significative, o sulle quali ritengo di poter avere qualcosa da dire o di poter fare dire qualcosa agli altri. Ci sono altre cose altrettanto interessanti sulle quali non lavorerei mai, oppure che ritengo assolutamente ininfluenti e non farei perdere tempo neanche al pubblico (ride). In realtà la partecipazione di Alexander è nata dal nostro incontro a Venezia nel 2019, mai avrei pensato che da lì in poi il Mondo avrebbe fatto tre, quattro tuffi carpiati su se stesso. In parte si è trattato di contingenza, in parte di volontà.
Lei cura altri festival, come Annecy Cinéma Italien (con la recente vittoria de I Giganti di Bonifacio Angius) e fra le molte collaborazioni eccellenti è consulente alla programmazione della Mostra D’arte Cinematografica di Venezia. Quali sono le specificità nelle scelte di programmazione operate per una piccola realtà come Carbonia, rispetto ad eventi più grossi come il Torino Film Festival?
Da una parte i temi – lavoro e migrazioni – che caratterizzano la città ed è giusto che vengano esplorati. Pur essendo di nascita un festival tematico, non è un festival di temi.
Vogliamo sempre che ci sia la forma del racconto e che quindi il festival sia incentrato su quel linguaggio che racconta i temi; non è un festival meramente di contenuti. Dunque i temi non ci mancano mai in qualche modo, perché facciamo un festival di film che trattano i contenuti.
Il secondo approccio è che si svolge in un contesto molto piccolo, che ha come base un pubblico locale e che vuole fare dei suoi limiti, o meglio specificità, dei punti di forza. Si tratta di un piccolo festival che, se curato per bene, può dare un’esperienza di fruizione molto più attenta, meno frenetica e caotica. Possiamo prenderci il tempo necessario e lavorare sugli ospiti offrendo un’esperienza a 360 gradi – in questo siamo aiutati dalle bellezze del territorio, tale che gli ospiti non vogliono più andarsene. Dunque una manifestazione molto attenta alla qualità dell’esperienza, sia per il pubblico che per gli ospiti.
Dimensioni circoscritte, ma possiamo andare in profondità.
In questo senso le Masterclass sono un bel valore aggiunto e un’opportunità per i ragazzi del Programma Carbonia Cinema Giovani. Quale approccio e quali aspetti del fare cinema si sono trattati?
E’ stata una bella conversazione di 90 minuti a partire dalla formazione di Alexander in ambito teatrale, che in modo graduale lo ha portato al documentario partendo da un’idea di cinema di osservazione, ma appunto incentrata sul tentativo di costruzione del senso attraverso il racconto.
In questo siamo arrivati a una conclusione per cui il processo che fa lui è qualcosa di molto più vicino al lavoro che si può fare da uno psicologo, piuttosto che al lavoro di un romanziere, nel costruire una vicenda che noi leggiamo e nella quale dobbiamo trovare i significati che riguardano noi stessi.
Abbiamo anche analizzato alcune sequenze da un suo film precedente che si chiama Toto e le sue Sorelle e siamo entrati nei dettagli del funzionamento di alcune scene di Collective, per capire com’è stato possibile realizzare il film.
Attualmente Alexander Nanau sta sviluppando alcuni progetti, fra cui una serie e un film d’animazione.
Tra le sue maggiori influenze cinematografiche si annoverano Rainer Werner Fassbinder, il Nuovo Cinema Tedesco, i fratelli Maysles e C’era Una Volta in America di Sergio Leone, ma sostiene che “i giovani cineasti non devono tentare di imitare altri o seguire le tendenze, devono fare quello che si sentono”.
“Carbonia Film Festival presenta How to Film the World” è organizzato dal Centro Servizi Culturali Carbonia della Società Umanitaria – La Fabbrica del Cinema e CSC Cagliari della Società Umanitaria – Cineteca Sarda, insieme alla Regione Autonoma della Sardegna e al Comune di Carbonia, con il sostegno di Fondazione Sardegna Film Commission.
A cura di Tiziana Fresi.