di Alessandro Capezzuoli, funzionario ISTAT e responsabile osservatorio dati professioni e competenze Aidr
“Io sto morendo, ma quella puttana di Emma Bovary vivrà in eterno”.
Con queste parole, pronunciate in punto di morte, Flaubert ha sintetizzato, oltre ai sentimenti di amore e odio nei confronti del personaggio letterario da lui stesso creato, il significato più profondo della parola “narrazione”. Parola che, a essere onesti, grazie all’utilizzo perpetrato e abusato da giornalisti, politici e opinionisti, comincia a causarmi reazioni allergiche almeno quanto la parola resilienza, ormai utilizzata così frequentemente da perdere ogni significato.
Ma andiamo per gradi… credo che l’uomo esista perché esistono le sue storie. Questo concetto è sintetizzato molto bene dalla meccanica quantistica e dal principio antropico: un fenomeno esiste quando può essere osservato e, se può essere osservato, dipende in qualche modo dall’osservatore.
L’osservatore, però, ha dei vincoli dovuti alla sua stessa esistenza. Scendendo leggermente di livello, si potrebbe fare un parallelismo e affermare che l’uomo esiste perché esistono degli osservatori che raccontano la sua storia e lo rendono immortale. Osservatori vincolati da un principio antropico “depotenziato”, che corrisponde all’esistenza in un certo periodo storico governato da morali, ordinamenti sociali e pregiudizi.
In fin dei conti, nel corso dei secoli, sono cambiati i mezzi, ma le tecniche di comunicazione, dai tempi della caverna, quando i cavernicoli si radunavano intorno a un fuoco per raccontarsi storie di caccia, non sono cambiate poi così tanto.
Jung sosteneva che la grotta è una delle rappresentazioni dell’archetipo della Grande Madre: la magica autorità del femminile, la saggezza e l’elevatezza spirituale che trascende i limiti dell’intelletto; ciò che è benevolo, protettivo, tollerante; ciò che favorisce la crescita, la fecondità, la nutrizione; i luoghi della magica trasformazione, della rinascita; l’istinto o l’impulso soccorrevole; ciò che è segreto, occulto, tenebroso; l’abisso, il mondo dei morti; ciò che divora, seduce, intossica; ciò che genera angoscia, l’ineluttabile.
La grotta viene associata a uno dei luoghi di procreazione o di nascita perché, in qualche modo, rappresenta l’utero femminile da cui sorge la vita.
Gesù Cristo, tanto per citare la storia inedita di un personaggio poco conosciuto, viene fatto nascere all’interno di una grotta, al freddo e al gelo. Non nasce, forse, ma viene fatto nascere, perché quella storia, vera o falsa che sia, è ricca di simbolismi: rappresenta la riscoperta del bambino, il ritorno all’inizio, la valorizzazione delle esperienze di vita vissuta.
L’inventore di questa narrazione, tuttora ignoto, merita senz’altro il premio Nobel per la comunicazione: conoscete un’altra storia, altrettanto duratura, che sia riuscita a condizionare le coscienze di miliardi di persone e che abbia permesso la creazione di uno stato potente e ricco come il Vaticano?
A dire il vero, nei Vangeli non vengono fatti molti riferimenti alla natività (sembra addirittura che Gesù sia nato nel 7 a.c., ovvero sette anni prima di sapere che fosse nato), per cui, la storia della grotta deve essere stata creata ad arte da qualche social media manager buontempone, che ha intuito nel Natale un enorme business.
Potremmo fermarci qua e, come in un racconto di Carver, lasciare ai lettori la libera interpretazione di quale sia il ruolo, oggi, del social media manager, ma non sarebbe giusto: proviamo a darne una connotazione più precisa.
Iniziamo subito a escludere la parola narrazione dai discorsi che faremo e, soprattutto, dai contesti politici e lavorativi. La narrazione, o più propriamente la narrativa, non corrisponde mai alla realtà: il fruitore di una narrazione si aspetta che le storie abbiano un senso narrativo non un senso di verità assoluta.
E il senso narrativo è subordinato a un patto invisibile tra il narratore e il lettore, il quale è disposto ad accettare qualsiasi tipo di artificio, anche che il lupo di Cappuccetto Rosso parli e si mascheri da nonna.
Katherine Mansfield, una celebre scrittrice di racconti brevi dei primi del ‘900, definì il narratore una specie di funambolo in grado di raccontare la verità come solo un bugiardo può dirla.
Ecco, un social media manager non è un narratore, e la mistificazione della verità a cui assistiamo quotidianamente sui diversi media non c’entra niente con la parola “narrazione”. Eppure, un social media manager che non si limiti alla pubblicazione meccanica dei post sui social, ma che utilizzi le parole per comunicare, è destinato a diventare l’evoluzione del giornalista vecchia maniera.
Oggi più che mai, creare i contenuti non basta, è necessario “saper raccontare un contenuto” e renderlo visibile affinché il messaggio arrivi al maggior numero di persone.
Il celebre Don Gaetano, un personaggio letterario di un romanzo di Leonardo Sciascia, sosteneva maliziosamente che “le cose che non si sanno non sono”. Ed è vero.
Ce ne siamo accorti negli ultimi due anni, in cui i media hanno vergognosamente orientato l’opinione pubblica attraverso una narraz… descrizione parziale e poco chiara della realtà. Tutto ciò che non si conosce, in qualche modo non esiste, un po’ come dire “occhio non vede e cuore non duole”.
Le parole continuano a essere il mezzo di comunicazione più potente che abbiamo a disposizione e possono essere usate come armi, soprattutto in un momento di paura dilagante. Paura di morire per colpa di un virus, per esempio.
Ed ecco che la parola “immunizzazione”, ripetuta sotto forma di notiziario o hashtag, diventa una specie di mantra da cui scaturisce il convincimento diffuso di essere protetti. Immuni, per l’appunto. Anche se le ricerche scientifiche dimostrano tutt’altro, la diffusione delle parole prevale sulle pubblicazioni.
E non solo perché una rassicurante bugia è più gradita di una scomoda verità, ma perché le parole viaggiano sui media a una velocità molto più alta di quanto viaggi un problema complesso e sfaccettato a cui corrispondono soluzioni altrettanto complesse.
I media, attraverso le parole, semplificano, forniscono risposte facili e veloci, riducono la complessità e creano tuttologi- o fuffologi?- spocchiosamente (im)preparati su qualsiasi argomento.
Il social media manager ha un ruolo sociale importantissimo: a lui è demandata la ricerca della verità, la sua rappresentazione e la diffusione sui diversi mezzi d’informazione.
Il problema principale con cui si deve confrontare, però, riguarda proprio la parola “verità” perché, troppo spesso, chi svolge questo lavoro viene chiamato a costruire false verità partendo da punti di vista, opinioni personali o, peggio, da obiettivi meschini.
Federico Palmaroli, il creatore della pagina Le più belle frasi di Osho, è un Social Media Manager? Direi proprio di sì: lo è, a fin di bene. Utilizza l’ironia, spesso fa sorridere, a volte fa riflettere, e riesce a raggiungere i destinatari più disparati. Conosce l’uso di un certo tipo di linguaggio, lo sa usare benissimo e sa usare i social network.
Ma chi sono, esattamente, i bersagli perfetti, quelli a cui certi messaggi arrivano più facilmente attraverso i social network? In primo luogo, sono i fruitori delle informazioni rapide, quella parte di popolazione che va di corsa, non ha tempo di approfondire le notizie e le fonti, si limita a leggere i titoli, spesso non è in grado di valutare l’attendibilità di un’informazione, non si ferma a ragionare e, quando si tratta di condividere qualcosa, ha il dito più veloce del west. Finché si tratta di leggere frettolosamente una vignetta di Osho, ridere e condividere, direi che non ci sono grossi problemi.
Ma cosa succede quando i messaggi e le condivisioni sono di un tenore diverso e ben più insidiose?
Succede che si orientano, pardon, disorientano, le masse attraverso la leva delle paure.
Si tratta di una tecnica collaudata che funziona benissimo da secoli: si costruisce un nemico, si creano una paura e un guerriero che, in nome del bene, protegge e rassicura gli impauriti, e il gioco è fatto.
In nome della paura, e della protezione, si può compiere indisturbati qualsiasi scempiaggine. In questo, Luca Morisi è stato un vero maestro.
Un social media manager raffinato, se di raffinatezza si può parlare. È lui ad aver coniato la parola “Capitano”, per dare un ruolo da condottiero a Matteo Salvini, è lui ad aver portato un partito politico a un consenso del 30% partendo da un misero 4%, è lui ad aver ideato “La bestia”, ovvero il team di esperti che, attraverso la sentiment analysis, ha costruito ad arte e diffuso sui social le idee di un partito, basandosi sui desideri espressi da una parte degli elettori, attraverso le preferenze manifestate sui social network.
È lui ad aver creato il fenomeno Salvini, mistificando la realtà, amplificando le paure, che a dire il vero già ribollivano nelle viscere di una parte della società, dei migranti e dei diversi (dei deboli, in poche parole).
Questa descrizione può sembrare di parte, ma in realtà rappresenta soltanto una faccia della medaglia che non c’entra nulla con gli schieramenti politici.
L’altra faccia, forse peggiore, è rappresentata dagli avvenimenti recenti e dalle scelte scellerate e liberticide conseguenti alla gestione della pandemia.
L’amplificazione delle paure, in quel caso, è andata ben oltre “la bestia” e ha coinvolto i media nella loro interezza, creando un pensiero a senso unico, demonizzando il dubbio socratico, dividendo la società tra pro e contro, riducendo la democrazia e il parlamento ai minimi termini e legittimando provvedimenti a dir poco spregevoli e discriminatori.
In questo caso, non c’è stato bisogno di creare una paura ad hoc, è arrivata direttamente dalla Cina ed è bastato bombardare di notizie terribili le persone fino a terrorizzarle. Con l’accondiscendenza della “scienza”, ovviamente, che in molte esternazione è passata dall’uso del linguaggio scientifico a un linguaggio da infimo avanspettacolo pubblicato senza vergogna sui social.
O con le contraddizioni della politica, che può permettersi di affermare con sicumera un concetto e tradire gli ideali il giorno dopo, senza pagare la minima conseguenza.
Diciamo la verità: quello del social media manager diventa spesso il famoso “sporco lavoro che qualcuno dovrà pur fare”, perché il potere, il profitto e il consumo (in poche parole il neoliberismo) giocano ancora un ruolo chiave nella società.
In questo panorama triste, però, ci sono gli spazi per l’affermazione di un esercito di “garanti diffusi dell’informazione”. Un esercito di cui fidarsi, insomma. Perché non basta che una notizia rimbalzi da un social all’altro, riceva milioni di like e orienti l’opinione pubblica: una notizia deve essere prima di tutto veritiera e verificata.
I “vecchi” professionisti dell’informazione non hanno capito ancora bene le dinamiche attraverso le quali una notizia o un fenomeno diventino “virali” (anche se da mesi non fanno altro che parlare di virus). I vecchi professionisti dell’informazione non hanno capito ancora che non possono più permettersi di comportarsi come delle vallette, leggendo le notizie diffuse dall’ANSA o propagandando una qualche ordine imposto dall’alto.
I vecchi professionisti dell’informazione non hanno ancora capito che i fenomeni sociali e politici si narra… descrivono attraverso i dati, e i dati bisogna saperli cercare, trovare, capire e interpretare invece di spararli a caso in base alle proprie convenienze.
I nuovi professionisti dell’informazione, i social media manager, queste cose le sanno eccome, perché non conoscono soltanto gli strumenti digitali, ma anche i meccanismi alla base della comunicazione moderna, sanno riconoscere gli utilizzatori, targettizzarli, prevedendo le reazioni e le tendenze rispetto a una certa notizia.
Per questo hanno un potere enorme, il potere di omettere un’informazione e convincere una moltitudine di persone che una certa cosa non esista. Oppure che esista, dimostrandola; documentandola in maniera imparziale; supportandola con i dati e con le diverse interpretazioni che ne possono conseguire.
Trattando i media, l’informazione, ma soprattutto i destinatari dei messaggi, con i dovuti riguardi. Cercando di non contraddirsi e di non tradire la fiducia.
Ciò che differenzia un Burioni qualsiasi da un social media manager è proprio questo aspetto: il primo può permettere il lusso di insultare, di dire mezze verità, di tradire la fiducia e di perdere qualche follower, il secondo non può farlo perché ha un’etica e una dignità che devono andare oltre ogni irragionevole conflitto di interessi.