Scade il prossimo 31 dicembre l’obbligo di riportare in etichetta l’origine del grano della pasta. Lo ricorda Coldiretti Sardegna nella giornata mondiale della pasta. Una scadenza che preoccupa per una conquista fondamentale della Coldiretti per i cerealicoltori ed i consumatori.
L’obbligo di scrivere nelle etichette della pasta l’origine del grano è scattato il 14 febbraio del 2018. Il decreto prevede che le confezioni di pasta secca prodotte in Italia – spiega la Coldiretti – debbano indicare il nome del Paese nel quale il grano viene coltivato e quello di molitura.
Una misura che ha portato gli acquisti di pasta con 100% grano italiano a crescere ad un ritmo di quasi 2 volte e mezzo superiore a quello medio della pasta secca, spingendo le principali industrie agroalimentari a promuovere delle linee produttive con l’utilizzo di cereale interamente prodotto sul territorio nazionale.
Un trend sul quale rischia però ora di scatenarsi una tempesta perfetta, con la scadenza dell’obbligo dell’origine in etichetta che si aggiunge al caro prezzi determinato dagli aumenti delle quotazioni internazionali del grano, legati al dimezzamento dei raccolti in Canada. Il paese nordamericano è il principale produttore mondiale e fornitore dell’Italia costretta ad importare circa il 40% del grano di cui ha bisogno e dunque particolarmente dipendente dalle fluttuazioni e dalle speculazioni sui mercati. Il tutto nonostante in Canada sia consentito l’utilizzo del glifosato in preraccolta, modalità vietata sul territorio nazionale.
Il grano italiano – riferisce la Coldiretti – viene infatti pagato al momento circa il 20% in meno rispetto a quello importato nonostante le maggiori garanzie di sicurezza e qualità, “mentre i nostri agricoltori – ricorda il presidente provinciale di Coldiretti Cagliari Giorgio Demurtas – si trovano a subire questi aumenti che non hanno fruttato neppure un centesimo a chi produce nonostante una crescita di oltre il 60 per cento rispetto ai 27 euro al quintale con il quale lo hanno venduto e adesso anche la beffa di dover fronteggiare l’aumento esponenziale dei costi di produzione legati all’aumento senza fine dei mezzi tecnici utili alla coltivazione: gasolio e concimi, oltre al grano da seme, con il costo della semina letteralmente raddoppiati”.
“Per l’ennesima volta – sottolinea il presidente provinciale di Coldiretti Oristano Giovanni Murru – assistiamo alla privatizzazione degli utili, mentre i debiti sono sempre socializzati: una visione miope che strozza il primo anello della filiera”.
Eppure nell’ultimo anno in Sardegna – secondo le elaborazioni di Coldiretti Sardegna sui dati Istat – si è registrata una storica crescita degli ettari coltivati a grano duro del 14,6 per cento passando da 18.066 ettari del 2020 ai 20.696 e una crescita del 25,6 per cento della produzione, passata dai 462.932 quintali del 2020 ai 581.355 quintali di quest’anno.
Una piccola inversione che arriva dopo anni neri che hanno portato ad una caduta libera sia della superficie coltivata che dei cerealicoltori.
In sedici anni (2004 – 2020) è stata persa oltre l’80 per cento (81,3) della superficie, addirittura 78.644 ettari, passando da 96.710 ettari a 18.066. E dire che la Sardegna tra la fine dell’800 e inizi del ‘900 era la seconda regione dopo la Sicilia in cui si coltivava più frumento duro in Italia: 158.000 ettari su 1,29 milioni totali (dato Laore). Negli ultimi venti anni sono dimezzati anche i cerealicoltori, passati da oltre 12mila a meno di 6 mila.
L’inversione finalmente positiva di quest’anno, dovuta anche al prezzo dello scorso anno, quando si andò anche oltre i 30 euro a quintale, rischia di essere vanificata non solo dal nuovo calo (27 euro/Q), ma soprattutto dall’impennata delle materie prime che lieviteranno i costi di produzione oltre che dall’eventuale scadenza del decreto sull’etichetta di origine.
“Con l’aumento del prezzo si è creato una valore aggiunto di 10milioni di euro dovuto alla crescita del prezzo di oltre il 60 per cento – ricorda Giovanni Murru –, ma gli agricoltori ancora una volta non hanno goduto di questo incremento anzi lo stanno subendo cosi come i consumatori.
Questo dimostra che gli accordi di filiera devono essere seri e virtuosi come quelli che stiamo proponendo come Coldiretti che vanno a vantaggio di tutti gli attori come dimostra dal 2017 l’accordo che abbiamo siglato come Coldiretti Sardegna con il caseificio piemontese Biraghi che sta dando soddisfazioni a tutti e sta crescendo nei numeri di anno in anno”.
L’Italia è in assoluto il Paese in cui si coltiva più pasta: 23,1 kg annui pro-capite. Seguono a distanza gli USA con 9 kg, la Francia e Germania con 8, e il Regno Unito con 3,5 kg, nonostante, come evidenzia una indagine Doxa, anche in questi Paesi la consumino tutti con percentuali vicine al 90 per cento (in Italia la mangia il 98 per cento; tutti i giorni il 60 per cento).
“Indicare l’origine della materia prima è fondamentale – commenta Giorgio Demurtas – perchè senza trasparenza chi paga le conseguenze sono gli agricoltori che vedono snervato il proprio lavoro dalla concorrenza sleale e i consumatori che non hanno gli strumenti per scegliere cosa portare a tavola”.