Matteo Leone è l’unico artista sardo in gara. Più che sardo, sarebbe il caso di dire isolano e tabarkino: nato nel 1987, cresce infatti a Calasetta, nella frazione di Cussorgia. Dalla banda musicale al jazz d’avanguardia, passando per il blues sino alla world music: l’attitudine alla ricerca e alla sperimentazione accompagnano il cantautore sin dalla tenera età. I Don Leone con Donato Cherchi, lo Snake Platform del maestro Daniele Ledda, il Time in Jazz 2021 con Bombino, il Sziget di Budapest e i tour in Giappone e negli Stati Uniti sono solo alcune delle tappe della sua carriera. È da questo bagaglio di esperienze che nasce l’idea di Raixe (“radici”), album scritto e cantato nella sua lingua madre, quella tabarkina: un mix di sardo, genovese e tunisino. In mézu ô mò, primo estratto dall’album, è il brano con cui ha vinto in termini assoluti del Premio Parodi.
Ciao Matteo, innanzitutto ti facciamo i complimenti per aver superato la selezione. Puoi raccontarci come sei arrivato a Musicultura? «Conoscevo già Musicultura per la sua fama. Mi sono iscritto l’anno scorso, in contemporanea al Premio Parodi. Prima è arrivata la chiamata del Parodi e poi due mesi fa quella di Musicultura.»
Al Teatro Lauro Rossi porterai il brano vincitore del Premio Parodi e un inedito. Quest’ultimo in quale lingua sarà? «Anche l’inedito sarà in tabarkino, come l’intero album che li contiene.»
Ci puoi parlare della genesi del tuo nuovo album e darci anticipazioni sulla sua uscita? «Ho iniziato a registrarlo due anni fa, terminandolo il giorno prima del lockdown del 2020. Tra le chiusure per via del Covid e altre questioni legate strettamente alla pubblicazione del disco, ho dovuto rimandarne l’uscita. Se tutto andrà bene, uscirà verso settembre.»
Sei nato e cresciuto a Calasetta: la decisione di scrivere un intero album in tabarkino è parte di un discorso identitario? «Non è stata una scelta obbligata, direi, piuttosto, ben ponderata. Tornavo dal tour negli Stati Uniti. È stata un’esperienza straniante per un ragazzo di Cussorgia che si ritrova d’improvviso nella terra del Blues. Mi sono trovato spaesato, senza radici. Mi sembrava, semplicemente, di imitare gli americani. Così, sono andato più a fondo: nel mio passato c’è Calasetta, Tabarka e la sua lingua.»
In mézu ô mò significa “in mezzo al mare”, ma anche altre tue canzoni parlano di questo argomento, specie come metafora del viaggio e della migrazione. «Noi tabarkini siamo i discendenti storici dei marinai, dei viaggiatori genovesi. I tabarkini sono sempre stati a contatto con il mare: nelle isole minori si sente ancor più la sua presenza. L’intero disco ruota intorno al concetto della migrazione: i tabarkini provengono anche dall’Africa del nord. I nostri antenati, per arrivare qui, hanno percorso la stessa tratta che percorrono oggi i migranti che arrivano sulle coste sulcitane. L’album contiene un monito: dobbiamo ricordare chi siamo, da dove veniamo.»
Il mare come protagonista, sonorità mediterranee e medio-orientali, e testi cantautorali: il rimando più immediato è quello al De André di Creuza de Mä. Ma nei tuoi lavori è chiara anche l’impronta africana: «La prima versione era ancora più deandreiana, con le dovute differenze. Creuza de mä è stato scritto anche a Carloforte, luogo in cui, in certe zone, l’unica frequenza disponibile è Radio Tunisi. Pagani ha sicuramente risentito dell’influenza di quelle sonorità. Per chi vive nelle isole tabarkine è impossibile non assorbire questi suoni nordafricani, è inevitabile. Ascolto tanta musica africana, soprattutto tuareg: gruppi come i Tinariwen fanno un blues africano più vicino alle mie corde, similmente alla musica sarda e a quella mauritana. Ho vissuto in Mauritania quando avevo 4-5 anni, e questa musica risveglia in me i ricordi d’infanzia.»
La tua musica necessita un approccio lento e contemplativo; ha una sua complessità, rispetto alla musica più mainstream, che invece si presta a un ascolto veloce e quasi usa e getta. In quest’ottica, pensi che le piattaforme di streaming possano essere una risorsa per raggiungere più persone oppure rappresentano un ostacolo? «Lo streaming ha due facce, da una parte mi consente di arrivare anche ad ascoltatori dall’altra parte del mondo. Ho ascoltatori dal Giappone e dal Sud Africa, per esempio. Il problema è uscire dal “roglio”, dall’inferno dello streaming: in questi spazi ci sono tantissimi artisti, per cui è difficile emergere. È molto più facile per chi si è già fatto un nome.»
Hai fatto un tour in Giappone, negli Stati uniti, sei stato allo Sziget: hai in programma nuovi concerti, anche all’estero? «Mi rincuora il fatto che mi stiano arrivando chiamate per l’estate, e probabilmente ripartiremo per il Giappone. Ci sarebbero in programma anche partecipazioni a dei festival in Spagna e Francia.»
E nella vita di tutti i giorni, cosa fa Matteo Leone? «Ho preso una scelta, quella di dedicare la mia vita alla musica. Suono da sempre, sin da quando avevo quattro anni. Ho deciso di lasciare il mio lavoro di cuoco — avevo un contratto a tempo indeterminato — e vivere della mia musica. Abito in una casa in campagna: mi permette di suonare senza disturbare i vicini di casa, immerso nel silenzio.»
a cura di Claudia Palmas