The Apartment With Two Women è un film difficile, nevrotico, disperatamente necessario. Apparso in anteprima mondiale al Busan International Film Fest, alla Berlinale poi e in questi giorni al Far East Film Festival di Udine – meta di pellegrinaggio d’eccellenza per i cultori del cinema asiatico – marca il coraggioso esordio alla regia della regista sud coreana Kim Se-in.
Metafora sociale, tratta di una coesistenza improntata sul fastidio, quella tra l’adolescente Yi-jung e sua madre Su-kyung. Una catena chiusa reitera l’incapacità d’instaurare quei socialmente riconosciuti rapporti salubri che paiono il miraggio di ogni seduta psicanalitica che si rispetti.
Due donne che indossano la stessa biancheria
Questo il titolo originale del film, così le protagoniste di questo dramma sociale riconoscono una nell’altra la cagione del proprio disagio, finché un incidente d’auto fa implodere la situazione. La zoppia della figlia si esaspera quasi per sbattere in faccia alla madre il dubbio profondo, insondabile: l’auto ha accelerato da sola o la mano che ti ha cresciuto può davvero ingranare la marcia del puro odio?
Una matrice di incomunicabilità pervade la narrazione. Unico spiraglio è la ricerca spasmodica, da parte di Yi-jung, di una codifica positiva che allevi gli atteggiamenti quotidiani – passivo-aggressivi, quando non esplicitamente lesivi – inflitti con noncuranza dalla cinquantenne Su-kyung.
Speranza vana, perché lo schema d’intenzione materno annovera una mitigazione che è unicamente votata all’autoindulgenza più paradossale: non sono io il problema, è lei quella pazza, mia figlia mi ha succhiato tutto il latte, la linfa e la vita ed è giusto che si faccia carico della mia incapacità di autorealizzarmi nel mondo, ovvero d’amare con pienezza – sembra questa la convinzione di Su-kyung.
Legami di sangue
Lo tesso schema della coppia perfetta si infrange sulle sue aspirazioni della donna, quando un uomo premuroso entra nella sua vita. Il nuovo fidanzato ha una figlia viziata che è il centro del suo mondo; questo esacerberà la frustrazione di Su-kyung in una sorta di analogia beffarda: come può rivestire il ruolo della brava matrigna se il solo imbattersi nei sex toys della ragazza la costringerà alle scuse più forzate, lei che non ha mai fatto ammenda col sangue del suo sangue?
Il film si apre proprio col bucato insanguinato. La maturità sessuale, oltre alla condivisione claustrofobica dello spazio, è fondamentale nelle dinamiche in atto. Il mestruo della figlia è l’apice dell’ambiguità nel loro scambio affettivo: sbrigativa, la madre provvede a sistemarle un assorbente sugli slip macchiati. Al gesto di accudimento – pur parziale – il sangue cola, ma è l’equivalente di una lacrima di commozione che ottiene in cambio solo disgusto. Fine delle speranze di sapersi amata, per Yi-sung. Non è solo la sua anima ad esser rifiutata, ma anche il suo corpo, la sua stessa evoluzione.
Queste donne non riescono a progredire nel loro percorso di vita. Ogni opportunità di voltare pagina viene smorzata; per la madre nel rifiuto di un nuovo nucleo familiare che la fa sentire in secondo piano; per la ragazza con un’involuzione nell’habitat di lavoro – ciò che potrebbe assicurarle l’indipendenza economica e uno spazio personale esclusivo è ora designato come luogo di ribellione.
In fin dei conti nessuno può cogliere quanto si sentano se stesse nel loro vivere così, insieme. Famiglia è persino condividere il dolore, la follia, l’opposizione – sembra dirci il film.
Le ripicche sono all’ordine del giorno, ma in un’ottica filmica assumono i connotati della bellezza sensoriale: questa è nel tessuto che fa attrito tra le lame delle forbici, quando Yi-jung riduce in brandelli i foulard di sua madre. Ogni piega un perché ponderato, caricato, perpetrato. Ogni taglio sul successivo plissé è più rancoroso del precedente. Così non si rassegna al rifiuto.
Fotografia sobria, poi trafitta da coni di luce drammatici esaltano l’ambiguità del rapporto; paradigmatica è la casa buia in una lunga sequenza interrotta solo dalla crudezza del corpo nudo di Su-kyung – in piedi dentro la vasca – illuminato da una torcia tra le mani di sua figlia, che malgrado i contrasti accorre in aiuto nel mezzo di un lungo blackout.
Abbiamo dialogato con la regista, Kim Se-in.
Il film entra sottopelle. In particolar modo mi ha colpito la dinamica dell’auto-sabotaggio. É come se queste donne si fossero consumate al punto che inconsciamente preferiscano rimanere nella loro gabbia condivisa, dove alternano il duplice ruolo di vittima e carnefice.
Questo è un problema che riguarda tutta la società e va oltre la dinamica vittima/carnefice. Nel rapporto tra persone si riesce a vedere solo quello che si sperimenta; ci sono punti di vista che si possono avere solo da vicini o da lontani. Io ho un rapporto con te che non capisco fino in fondo finché non è stato guardato da un’altra persona, oppure l’altro non può capire veramente la nostra relazione. Proprio questo rapporto di vicinanza e lontananza per me è la cosa più importante del film.
L’essere visti dall’esterno come mostri è chiaramente esplicitato nella percezione che i personaggi secondari hanno delle due protagoniste. D’altro canto è evidente a uno sguardo meno superficiale la forza del legame ritratto, emerge talvolta una sorta di volontà di ritorno all’utero materno, per quanto contraddittoria.
La gravidanza è stata sofferta e complessa per Su-kyung e in generale essere in attesa comporta anche tante difficoltà. C’è un legame che va oltre l’odio, la figlia sente questa sofferenza e in fondo non vuole abbandonarla.
La sopraggiunta maturità sessuale innesca la rabbia della madre, emergono dinamiche di invidia e competizione, una mentalità ancora animale che rimanda all’affermarsi in quanto donna-alfa. La stessa scelta di rappresentare il corpo in modo così crudo ma anche delicato mediante l’episodio del sangue mestruale che assume un significato di guida e cura è estremamente interessante. Cosa pensa del modo in cui il corpo femminile viene tematizzato e rappresentato nel cinema coreano e nella società in generale?
In Corea, insieme a mia madre frequentavo spessissimo i bagni pubblici – che sono delle sorta di spa condivise, con vasche in cui poter fare il bagno – questo mi ha dato modo di osservare in molti modi la nudità della donna. Il corpo parla della persona con cicatrici, linee, caratteristiche personali; tutto parla della sua vita fino a quel momento.
A differenza del corpo maschile, che è perfettamente trasparente, quello della donna è in continuo mutamento. Rappresentare il rapporto madre/figlia è come rappresentare la società tutta; così il corpo della donna è un processo di auto-scoperta.
Nel cinema coreano l’immagine della donna è estremamente stereotipata, io ho voluto mostrarne l’intero arco di vita dall’infanzia all’età adulta, con tutte le implicazioni.
A cura di Tiziana Elena Fresi.