L’uomo più felice del Mondo si presenta in ritardo in una squallida sala per incontri dal sapore anni 80, in pieno stile brutalista jugoslavo. Tutti i match combinati sono squallidi? Ad alcuni va abbastanza bene così, per altri è un passatempo, per i protagonisti di questo film è espiazione.
Presentato nella sezione Orizzonti della Biennale Cinema a Venezia, scampato alla corsa ai biglietti dei titoli più blasonati – si pensi a The Whale, Bones and All, White Noise, Blonde – Happiest Man in the World è uno di quei film che ti ricordano di leggere le scritte in piccolo. La regista macedone Teona Strugar Mitevska (Dio è donna e si chiama Petrunya) sa come indurre lucidità e vertigine nel suo pubblico.Il Film
Ad Asja e Zoran sono imposte casacche colorate, come a tutti i partecipanti ai quali è assegnato un tavolino da due. Su ognuno un congegno a pulsanti; uno verde, uno rosso – si preme il pulsante a turno, per ogni risposta.
I quesiti delle organizzatrici sono il primo segnale di una buona scrittura. Quando anche banalissimi, celano altro. A sfondo religioso o sessuale, il colore preferito e poi la tolleranza verso il prossimo nel contesto sociale di una Sarajevo che non ha ancora elaborato le sue ferite di guerra.
Asja, una normalissima quarantenne traboccante disillusione, non sa che il suo partner Zoran molti anni prima ha avuto un ruolo attivo nei suoi traumi.
Suo fratello è morto, lei – vagante sotto shock per le vie insanguinate – è rimasta ferita e ha fame. Un mirino la punta ogni notte nel suo letto.
Gli interrogativi incalzano e la tensione tra i due diventa prima dissimulazione, poi scoppio di fisicità incontrollata, quando Zoran esce dal percorso ben scandito dello speed date. Asja sembra rifiutare le proprie percezioni, rigetta le insinuazioni sui comuni trascorsi, poi volge il gioco delle domande al servizio della propria rabbia montante.
Non scopriremo mai chi abbia congegnato il vis à vis.
La regia asettica schiaccia via via i personaggi ai margini, in primi piani dal basso (Zoran con la faccia sotto al rubinetto è da Inferno in Terra). Un grosso lavoro sul sound design e l’uso puntuale della camera a mano stravolgono lo spettatore quando ogni schema del gioco salta.
Fughe nell’altrove – nei bagni, nei corridoi, nei pensieri – si interrompono con giochi ben poco amichevoli, in questo lungo pomeriggio. Una palla avvelenatissima, un walzer che diventa danza sfrenata, rituale esorcizzante e infine sparatoria.
Tutta una metafora, ma ci sono i fatti: chi ha premuto il grilletto, fatto irruzione, spaccato vetrate? Chi si è innamorato?
Quando il mistero è svelato nella necessità del perdono, pensiamo possa risolversi in un sì o un no.
Occorrerà che l’ostaggio incappucciato e legato, Zoran, sia consenziente davanti agli sguardi attoniti dei presenti, in una nuova tragica escalation di violenza e sopraffazione.
Asja si infiltra a una festa di diciottenni. Zoran deve andare, ma da nessuna parte.
Il sole tramonta in time lapse nel cielo di Sarajevo; una Roma caduta. La voce elettronica recita Catullo.
“Odi et Amo. Quare id faciam, fortasse requiris.
Nescio, sed fieri sentio et excrucior”.
“Odio ed amo. Perché lo faccia, mi chiedi forse.
Non lo so, ma sento che succede e mi struggo”.
A cura di Tiziana Elena Fresi.