La morte di Mahsa Amini per mano della polizia della morale iraniana e la condizione delle donne in Iran
La morte di Mahsa Amini nel settembre scorso ha riacceso le proteste contro la polizia morale in Iran e ha, ancora una volta, fatto luce sulla condizione delle donne nel paese.Chi era Mahsa Amini
Mahsa Amini, Jhina il suo nome di battesimo curdo, era una ragazza curdo-iraniana di 22 anni.
Agli inizi di settembre la ragazza viaggia insieme alla famiglia dalla provincia del Kurdistan iraniano, dove risiede, verso Teheran, per fare visita a parenti.
Durante il soggiorno nella capitale, il 13 settembre 2022 la polizia morale iraniana la arresta perché il velo non le copre completamente i capelli. Tre giorni dopo il suo arresto entra in coma e muore in ospedale.
La polizia parla di problemi cardiaci della ragazza che si sono verificati durante la detenzione; il capo della polizia spiega come si sia trattato di uno “sfortunato incidente”, in quanto Mahsa sarebbe morta per un infarto. Ma cosa può aver causato un infarto ad una ragazza di 22 anni, sana, che è entrata in coma tre giorni dopo il suo arresto?
La versione degli attivisti locali, come il Kurdistan human rights group, infatti, diverge totalmente e non è certamente la prima volta che denunciano una situazione ben più grave di quella descritta dalle autorità:
situazione che vede coinvolti in prima persona i poliziotti, diretti autori di pestaggi e torture.
La polizia morale iraniana
La polizia morale iraniana (Gashte Ershad in persiano) è un corpo delle forze di polizia iraniane istituito nel 2005 che ha il compito di arrestare le persone che violano il codice di abbigliamento, formalmente sancito con la rivoluzione iraniana del 1979.
Prima del 2005, e quindi prima della formale istituzione della polizia morale, le regole erano fatte rispettare in maniera informale da altre forze dell’ordine.
A partire dal 1979, con la fine della rivoluzione islamica iraniana che segna il passaggio da una monarchia a una repubblica islamica sciita, i valori cui la costituzione si ispira sono quelli della legge coranica.
Ma come agisce la polizia morale iraniana per far rispettare queste regole?
La polizia morale agisce attraverso avvisi, multe, detenzione e strutture di correzione:
le donne vengono, spesso, rilasciate da queste strutture solo quando un parente (presumibilmente uomo) fornisce assicurazioni e garanzie sul rispetto delle regole.
Ma il clima intimidatorio ed escludente nei confronti delle donne è costante: il 15 agosto 2022 il presidente Ebrahim Raisi ha proposto l’emanazione di un decreto per far rispettare ancora più severamente la legge sull’hijab.
Inoltre, le donne che nei social pubblicano foto senza velo si vedono private di alcuni diritti sociali, come ad esempio entrare negli uffici pubblici:
queste sanzioni possono durare dai 6 mesi fino a un anno.
Le donne in Iran: dalla dinastia Pahlavi…
Prima della Rivoluzione iraniana del 1979 il paese era governato dalla dinastia Pahlavi:
Reza il Grande, proclamato re il 25 aprile 1926, è stato il primo scià di Persia della dinastia da lui creata.
La sua idea era quella di portare avanti una modernizzazione in senso occidentale del paese e questo ebbe un impatto positivo sulla posizione sociale delle donne: ad esempio bandì il velo e aprì l’università di Teheran alle studentesse.
Il figlio di Reza, Mohammad, proseguì secondo l’operato del padre regnando dal 1941 fino alla rivoluzione islamica del 1979.
Nel 1942 iniziò quel periodo definito “Rivoluzione bianca”:
si attribuì alle donne il diritto di voto attivo e passivo, nel 1968 Farrokhroo Parsa divenne la prima donna Ministro della storia in Iran e, soprattutto, si attuò una riforma dello stato di famiglia che cercava di garantire una maggior protezione alle donne, ad esempio in caso di divorzio.
Ma la Rivoluzione bianca era sentita da parte della popolazione iraniana come una occidentalizzazione imposta e forzata:
soprattutto la figura di Ruhollah Khomeyni ispirò questo pensiero di rivolta e portò, a seguito dei numerosi scontri, alla fuga dello Scià nel 1979.
… fino a Ruhollah Khomeyni
Ruhollah Khomeyni impose subito la sua impronta “rivoluzionaria”:
abrogò la riforma del codice familiare, impedì l’accesso alla facoltà di giurisprudenza alle studentesse e revocò gli incarichi alle giudici presenti, impose il velo obbligatorio per lavoro e per uscire di casa.
Soprattutto l’imposizione del velo fu l’elemento alla base di numerose proteste.
Le pressanti proteste portate avanti dalle donne produssero un leggero ed effimero effetto: le donne dovevano, da quel momento in poi, tenere un abbigliamento “modesto”.
Questa fu solamente una labile “concessione” riconosciuta alle donne tanto è vero che il velo venne gradualmente reimposto anzi, le donne furono costrette a subirlo:
l’alternativa era, ed è ancora, essere vessate, intimidite, escluse dalla società o, ancor peggio, essere uccise.
Il discorso sul velo obbligatorio è sempre stato al centro delle discussioni di potere:
soprattutto negli anni ’80 durante il periodo di islamizzazione del paese e durante l’invasione dell’Iraq e la successiva guerra fra i due paesi.
Il presidente Khatani, al potere dal 1997 fino al 2005, emanò nuove misure impeditive ed escludenti per le donne e, soprattutto, misure atte a disgregare ancora di più i rapporti fra uomini e donne.
Il Codice di abbigliamento per le donne
Dal 1979 per le donne è obbligatorio coprire praticamente tutto il corpo tranne le mani, il viso e il collo e devono nascondere il più possibile le forme del corpo.
Per questo i capi più comuni utilizzati sono oltre all’hijab, il velo che è obbligatorio nei luoghi pubblici, anche il Manteau, una sorta di cardigan lungo utile per coprire le forme del corpo, e lo Chador, un velo che copre dalla testa ai piedi, solitamente utilizzato per l’ingresso nei luoghi religiosi.
Le donne sono obbligate ad indossare l’hijab nel posto di lavoro e in luoghi pubblici:
non sono libere di scegliere in quanto le scelte vengono prese dall’alto e dall’altro (sesso) e imposte sulle loro vite.
Nel 1983 per le donne che non si coprono in pubblico vengono previste 74 frustate; un recente emendamento prevede, inoltre, fino a 60 giorni di carcere.
Un clima quotidiano di intimidazione
Prima di Mahsa Amini molti sono stati i casi, testimoniati soprattutto dagli attivisti per i diritti umani, di vere e proprie persecuzioni nei confronti delle donne iraniane.
Molti i casi recenti:
nell’Ottobre del 2018 Vida Movahedi, donna attivista per i diritti umani, viene arrestata per essersi mostrata senza velo in un luogo pubblico.
E’ considerata la prima “ragazza della via della Rivoluzione” perché ha manifestato togliendosi il velo e appendendolo ad un bastone per poterlo sventolare proprio nella nota via di Teheran.
Nel marzo del 2019 Nasrin Sotoudeh, avvocata attiva nella difesa dei diritti umani, viene condannata a 38 anni di carcere e 148 frustate per “incitamento alla corruzione e alla prostituzione e per aver commesso un atto peccaminoso”, ovvero essere apparsa in pubblico senza velo.
Con il presidente Rouhani, che ha governato il paese dal 2013 fino ad agosto 2021, 106 donne nel paese sono state impiccate.
Ancora nel 2021 alcune spie iraniane sono state accusate di rapimento nei confronti dell’attivista Masih Alinejad, che vive tuttora sotto scorta e si batte contro l’obbligo del velo.
Le continue imposizioni nei confronti delle donne iraniane
Nel gennaio del 2019 il vice presidente del Parlamento Ali Motahari ha aperto alla possibilità di un referendum su scala nazione sull’obbligatorietà dell’hijab ma molte donne si sono opposte a questa proposta.
Nonostante molti uomini, soprattutto giovani, siano contrari all’obbligo di indossare il velo, le donne iraniane ritengono sia giusto lasciare solamente a loro la possibilità di scelta.
Ricondurre la lotta politica al suo soggetto reale, ovvero le donne che si vedono obbligate ad utilizzare l’hijab, e quindi, a subirlo come un’imposizione, significa rompere lo schema di potere che vede gli uomini decidere ed imporsi nei confronti delle donne e delle loro vite.
Questa continua strumentalizzazione delle donne e del loro abbigliamento per interessi di potere e la loro impossibilità di scelta è una costante del paese.
Nell’ottica di una occidentalizzazione del paese lo scià Reza Pahlavi impose, nel 1936, la legge dello Svelamento Forzato (Kashf-e Hejab), che comportava l’adozione degli abiti occidentali al posto degli abiti tradizionali.
L’abbigliamento della donna viene, quindi, utilizzato utilitaristicamente come strumento di modernizzazione del paese.
Ma, ancora una volta, alla donna non è data la possibilità di scegliere.
Le donne, infatti, non volevano subire queste scelte e, anche in quelle circostanze, fecero sentire la loro voce:
solamente il futuro non lontano rivelerà loro come la giusta rivendicazione del diritto a scegliere per la propria vita sia stato, ancora una volta, strumentalizzato a loro sfavore o, peggio, come il potere si sia servito di quelle stesse voci per reprimerle completamente.
“Donna, Vita, Libertà”
La morte di Mahsa Amini ha riacceso le proteste delle donne in tutto il paese.
Il taglio dei capelli è il gesto simbolo di queste proteste: un atto simbolico che si rifà ad una vecchia cerimonia utilizzata nel paese in segno di lutto. Significa ignorare la propria bellezza per dimostrare il proprio stato di tristezza.
Purtroppo insieme alle proteste continua inesorabile la scia di ingiustizie e di morte:
Nika Shakarami, sedicenne che ha preso parte alle proteste in memoria di Masha Amini, è scomparsa il 20 settembre scorso mentre partecipava alle manifestazioni ed i familiari l’hanno ritrovata dieci giorni dopo in un obitorio di un centro di detenzione.
I parenti di Nika Shakarami affermano che la ragazza aveva il naso rotto e la testa fracassata: gli stessi parenti hanno subito minacce da parte delle autorità.
Le proteste continuano quotidianamente in tutto il paese:
i cittadini, alcune autorità religiose locali e il Partito della Fiducia Nazionale iraniano chiedono alle autorità l’abolizione della polizia morale.
Lo slogan “Donna, Vita, Libertà” racchiude tutto il significato profondo di questa lunga protesta mai culturalmente cessata: la ricerca della libertà di scegliere.
Elena Elisa Campanella