Viaggio nell’immaginario del grande scrittore e drammaturgo siciliano con “Uno, Nessuno e Pirandello”. Uno spettacolo ideato e interpretato da Salvatore Della Villa, che firma drammaturgia e regia. Anche protagonista sulla scena accanto a Tommaso Massimo Rotella e Chiara Serena Brunetta. In cartellone sabato 15 aprile alle 20.30. Mentre è stata cancellata, per problemi tecnici della compagnia, la replica di domenica 16 aprile alle 19 al TsE di via Quintino Sella nel cuore di Is Mirrionis a Cagliari.
Per la Stagione 2022-2023 di Teatro Senza Quartiere organizzata dal Teatro del Segno nell’ambito del progetto pluriennale “Teatro Senza Quartiere / per un quartiere senza teatro” (2017-2026). Con il patrocinio e il sostegno del MiC / Ministero della Cultura, della Regione Sardegna. Del Comune di Cagliari e con il contributo della Fondazione di Sardegna.
Una pièce ispirata al Teatro e alle Novelle di Luigi Pirandello, per riscoprire la poetica dell’artista che si definiva “figlio del Caos”. Giocando sul nome di una proprietà della sua famiglia, dove aveva visto la luce, situata «presso ad un intricato bosco denominato. In forma dialettale, Càvusu dagli abitanti di Girgenti, corruzione dialettale del genuino e antico vocabolo greco “Kaos” ».
“Uno, Nessuno e Pirandello”, fortunata produzione della Compagnia Salvatore Della Villa, parafrasando il titolo del celebre romanzo, propone un intrigante e significativo itinerario fra trame e personaggi scaturiti dalla fantasia di uno dei più importanti autori italiani, vincitore del Premio Nobel per la Letteratura nel 1934 «per il suo ardito e ingegnoso rinnovamento dell’arte drammatica e teatrale».
Sottolinea l’attore e regista Salvatore Della Villa che «Il Teatro di Pirandello è parola che scava, memoria dell’accaduto, per comprendere il fatto e addentrarsi nella contraddizione dell’uomo e svestire vulnerabilità e processi della sua esistenza. Oggi come ieri questa ‘parola’ ha la forza di un Teatro sempre nuovo e di una scena mai superata, nell’atto della vita.
“Uno Nessuno e Pirandello” è la fermata di un Uomo e di un Avventore pacifico, in un dialogo apparentemente sconnesso; è la stazione di Fileno con la sua teoria del ‘cannocchiale rovesciato’, per arrivare poi in uno spazio temporale non poco distante e incontrare le grottesche e vivide figure di un trascorso contadino con i caratteri de “La Giara”.
Altre Stazioni poi, altre fermate, altri di noi con le loro storie e le loro verità. Focus sulla tragedia di uomo consapevole del proprio destino, con “L’uomo dal fiore in bocca” che reca “la morte addosso” e avverte il peso della fine imminente, come una ingiusta condanna, rappresentata da un epitelioma.
«Ah, un nome dolcissimo… più dolce d’una caramella» – fino a sconvolgere la propria esistenza, priva ormai d’ogni parvenza di serenità: egli trascorre le sue giornate vagando per città, in fuga da se stesso, come dalla casa e dagli affetti, inseguito quasi di nascosto da una moglie disperata che vorrebbe curarlo se non guarirlo con il suo amore.
Una confessione amara, in un dialogo che è quasi un monologo, con uno sconosciuto, in un caffè. Impegnato in un duello mortale, prigioniero della sua solitudine anche se in mezzo agli altri. Quell’uomo assapora ogni istante, si sofferma ad ammirare i commessi di negozio, si immerge in profonde fantasticherie, sensibile a ogni dettaglio, per tentare di dimenticare quel fatale e ineludibile appuntamento. Estraniandosi guarda dal di fuori le vite degli altri, misurando l’inesorabile scorrere del tempo che sempre più lo avvicina all’ultimo atto, quasi una cronaca di una morte annunciata.
«Nell’atto unico “L’uomo dal fiore in bocca” c’è sempre in agguato la precarietà della vita, quella soglia che separa il nulla dall’eternità, per dirla con parole pirandelliane» – sostiene Salvatore Della Villa. «Il “fiore in bocca” è proprio l’incertezza di vivere e, di contro, l’entusiasmo per ogni attimo di vita vissuta. Un uomo condannato a morte per un male incurabile si intrattiene con uno sconosciuto che, avendo perso il treno, aspetta in un bar quello successivo. L’eccezionalità del momento, per chi “sente la morte addosso”. La normalità per chi è preso nel giro usuale della vita con i suoi piccoli impegni quotidiani, segnano i due termini della dialettica che si anima nel grande soliloquio del protagonista». E conclude: «La misura poetica e drammatica del monologo, insieme alla suggestiva atmosfera di un luogo notturno, sembrano un’ode sommessa alla vita che sfugge e rendono “L’uomo dal fiore in bocca” un capolavoro del teatro Pirandelliano».
Ritratto di famiglia in un inferno, tra le ceneri di un amore perduto e dimenticato e le esistenze travolte da uno scandalo in “Sgombero” da una novella scritta nel 1933 e pubblicata postuma. Dove una veglia funebre diventa l’occasione per confrontarsi con il passato, i segreti inconfessabili e il giudizio feroce della gente.
Un dramma sospeso tra i ricordi diventa improvvisamente vivo e presente, Lola, “eroina” un po’ sopra le righe, per temperamento oltre che per professione, con modi fin troppo disinvolti e toni aspri. Ripercorre la propria storia, quasi rappresentandola lì per un’ultima volta, prima che tutto sia finito e la casa venga svuotata di tutto, compresi i vecchi e miseri mobili, muti testimoni degli eventi che hanno segnato la sua esistenza. Spingendola a un atto di ribellione contro l’ipocrisia e il moralismo, l’ingiustizia e l’insensibilità.
Nella novella emerge una implicita riflessione sulla condizione femminile e una critica della cultura patriarcale, che impone alla donna regole severe e una posizione subordinata, di figlia, moglie o sorella, in cui un singolo “errore” o una “caduta” valgono una condanna senza appello. Nel risentimento della protagonista si avverte l’eco di un dolore profondo per il tradimento proprio delle persone più care, che avrebbero dovuto amarla e proteggerla.
Per un malinteso senso dell’onore che passa attraverso l’idea di una cosiddetta “virtù”. Il padre, colui che giace sul lettuccio di quello squallido appartamento, non aveva esitato a scacciarla. «E il più feroce di tutti fosti tu, che mi buttasti come una cagna sulla strada».
Spingendola alla degradazione sociale, con «la rabbia di gettarti in faccia la vergogna che non volesti tenere nascosta». Ma fra i ricordi affiora anche quello della creatura innocente e perduta, in una tenerezza struggente che scioglie i nodi dell’amarezza, per un istante, in un dolcissimo canto di madre.
Il trittico si chiude con “La Giara”, una commedia del 1916 (dall’omonima novella scritta nel 1906 e pubblicata nel 1909 sul Corriere della Sera. Poi inserita tra le “Novelle per un anno”) incentrata sul contrasto tra un ricco proprietario terriero.
Don Lol(l)ò Zirafa e Zi’ Dima Licasi, abile artigiano, chiamato a ricomporre il prezioso recipiente di terracotta destinato a contenere l’olio nuovo. L’arroganza e la prepotenza del committente, iracondo Imponendogli di usare anche il fil di ferro infastidiscono il conciabrocche. Inventore di un prodigioso mastice, tanto che questi, irato, finisce con l’imprigionarsi da sé nella enorme giara.
Ne nasce un caso, perché Don Lol(l)ò si dice disposto a pagare il lavoro ma pretende di essere risarcito per la perdita della giara. Dovrà essere nuovamente spaccata per liberare Zi’ Dima, il quale a sua volta è ben deciso a far valere le proprie ragioni.
Esige il compenso dovutogli senza altre contropartite o condizioni e anzi si accomoda bene all’interno dell’anfora e si mette a far festa con i contadini, spendendo allegramente i denari ricevuti. Finché il rivale, furente per il danno e la beffa colpisce con un calcio la giara, facendola rotolare via e mandandola in pezzi. Togliendolo così dall’impaccio e concedendogli il trionfo.
«“La Giara” mette in scena il teatro della vita in una avvincente storia di uomini e di cose. Capolavoro di graffiante ironia, è una commedia di sole, canti e risate. In una Sicilia estiva intrisa di colore e di folclore» sottolinea Salvatore Della Villa.
La commedia «racconta la disavventura di Don Lol(l)ò Zirafa, un proprietario terriero. Ancorato saldamente ai propri possedimenti e pronto sempre ad andare allo scontro con chiunque per difenderli. Don Lol(l)ò è una giara piena di litigiosità, prepotenza, pignoleria, arroganza ed ira: portando il tutto agli estremi limiti, diventa il simbolo, l’emblema della lite».
La vicenda paradossale si conclude con la vittoria morale di Zì Dima, che «almeno sa prendere la vita con filosofia ed allegria».
La novella e la pièce teatrale acquistano un valore simbolico. Va oltre l’elemento farsesco inserito in un contesto agreste: «Perché la giara si è rotta? Perché i simili si uniscono» – risponde Salvatore Della Villa – «Don Lol(l)ò ha la mente incrinata e fa acqua da tutte le parti; è un vaso rotto e non può che comprare una “giara” rotta in partenza».
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