Beau ha paura è una commedia orrorifica interpretata da Joaquin Phoenix, prodotta da A24 e distribuita nelle sale sale italiane da I Wonder Pictures – connubio che abbiamo già amato nello stralunato plurivincitore di Oscar Everithing Everywhere All at Once. “O lo ami o lo odi, come Barry Lyndon“, con queste parole Martin Scorsese in persona si è espresso sul film, lusingando le doti cinematografiche del regista Ari Aster (Hereditary, Midsommar). La sua autorialità si impernia sul simbolo della casa rovesciata, così in quest’opera impossibile da catalogare il protagonista abita un’incubo.
Un foglio di carta lanciato sotto una feritoia.
Da lì a un giorno prenderà un volo e farà visita a sua madre, questo è l’innesco della paura che, insieme al terrore per l’invasione della sua sfera intima, permea tutta l’esistenza di Beau. Durante la notte prima del viaggio è turbato dai biglietti vessatori che un invisibile vicino di casa molesto lascia sotto il suo portone – già qui è evidente la capacità di suscitare angoscia nello spettatore tramite i più semplici elementi del quotidiano.Nel suo quartiere malfamato, la cui corruzione è normalizzata e ribadita dal corpo morto del barbone abbandonato in mezzo alla carreggiata cui nessuno fa caso, Beau tenta di ripararsi come può da una serie di figure derelitte minacciose, la cui coscienza sembra essere stata risucchiata.
Neppure l’autoreclusione sembra funzionare; Beau attraversa i corridoi claustrofobici del palazzo come se le stesse scritte oscene marchiate sulle pareti con la vernice spray potessero strappargli le braccia di netto. É affisso un avviso ai condomini, un ragno velenoso ha cominciato il processo di violazione dei suoi spazi fisici e mentali. Un’orda junkie di drogati, prostitute, ladri e assassini si infiltra nel suo appartamento, Beau scappa nell’angoscia più esasperata su scale di servizio traballanti o scavalcando cadaveri a lunghi balzi, in sequenze che non ammettono battito di ciglia.
Segreti immorali di una famiglia perfetta
Quando non è impanicato, Beau è scioccato dalla noncuranza che il cassiere del supermarket oppone alla sua ipocondria o atterrito dalla possibilità che un tutore della legge incapace possa sparargli in faccia anziché aiutarlo. L’assenza di dialogo e l’incomunicabilità sono disarmanti tanto in queste circostanze quanto nella telefonata in cui Beau annuncia a sua madre che – derubato – non potrà raggiungerla. Qui avviene il primo contatto con la figura materna. Il fantasma di un padre assente è il trauma da cui sembra impossibile liberarsi. Morto d’infarto nell’istante del suo concepimento, questa è la versione raccontata a più riprese da una madre passivo-aggressiva che gli inculca l’impossibilità di godere senza pagare con la vita. Castrante.
Beau è lì che corre nudo per strada in preda all’agitazione, quando viene catapultato dall’impatto con un’automobile dentro un nuovo nucleo familiare così composto: una madre eccessivamente premurosa che intende far di lui il rimpiazzo del figlio prediletto impazzito in guerra. Il suddetto figlio, il cui ricordo abita un altarino memoriale in sala da pranzo, ma che in realtà occupa una roulotte nel bel giardino cinto da una spessa vegetazione. La vergogna della famiglia, un figlio pazzo, è coperta dagli interventi del padre, stimato chirurgo che insegue il ragazzo sedativi spillanti alla mano e che tratta Beau con modi affabili quanto manipolatori. Una figlia teenager piena di rabbia e autolesionismo che reclama attenzione genitoriale tracannando latte di vernice dai toni pastello.
Ancora una volta Beau scappa, stavolta da un contesto borghese apparentemente ben apparecchiato e completamente marcio. Il braccialetto elettronico alla sua caviglia è solo una delle forme di controllo cui viene assoggettato da chi professava di tenere a lui. Tenta di raggiungere il capezzale di sua madre, che ha scoperto essere appena morta schiacciata da un lampadario. La testa, per la dinamica dell’incidente, manca alla ricomposizione del feretro che attende solo l’arrivo del figlio per la cerimonia funebre – niente più che uno spettacolo volto a compiacere il moralismo dei presenti.
Poche telefonate gli ricordano ossessive il suo essere incapace nel ruolo di unigenito. Un forte senso di colpa viene caricato sulle spalle di Beau, nell’oscurità del bosco in cui si è perduto.
La messinscena del delirio
Una donna gravida lo introduce alla compagnia teatrale itinerante che lo abita. Un palcoscenico tra gli alberi pronto alla messinscena. Qui la verosimiglianza e la linea temporale del racconto muovono dal grottesco all’eminenza del simbolico. Le scenografie si animano senza perdere l’aspetto di ritagli e grafiche surreali. Beau, in qualche modo, diventa il protagonista della vicenda. Lo spettacolo parla di un uomo che non ha mai amato o forse sì, che ha avuto figli senza mai avere rapporti carnali e di un ricongiungimento familiare in tarda età, quando lacrime amare saranno state versate per l’afflizione di non aver mai rischiato nulla nella vita, né goduto delle sue gioie.
Il ricordo dell’unico amore di Beau filtra tra le maglie di questo viaggio allucinato in più occasioni. La ragazzina in questione, conosciuta in crociera da preadolescente, è nella polaroid che Beau conserva come unico oggetto caro, è nell’ideale di donna immaginata con la quale costruire una vita ordinaria ma lieta e avere bambini. L’unico bacio tra i due avviene sulla grande nave, a bordo della piscina in cui galleggia un altro cadavere ignoto. I giovani sanno essere morbosi e inquietanti come i cenni umoristici di Ari Aster.
Intanto, i dubbi sulla morte del padre di mescolano all’incredulità per la scomparsa repentina della madre. Un’ennesima scia di morte perseguita il pauroso Beau, che raggiunge la casa materna quando è tardi anche per l’ultimo addio. Dentro la bara ancora aperta manca il volto. Una voce registrata diffonde un commiato lusinghiero verso questa figura dai rossi capelli che ci è trasmessa solo in modo indiretto tramite fotografie e flashback. Fu potente manager, proprietaria di una villa di design bella da vedere quanto impossibile da abitare per i suoi molti livelli sfalsati, ma soprattutto madre perfetta che ha incentrato la sua intera vita sull’amare un figlio ingrato. Quasi Beau si ricrede sui sottili maltrattamenti che riaffiorano alla mente nel corso del film come pensieri intrusivi. Vive uno sdoppiamento nella percezione della sua infanzia. Quasi si spera in un finale che abbia nella presa di coscienza una sua risoluzione compiuta ed è lì che appare la ragazzina dei suoi ricordi, ora dipendente dell’azienda materna.
La sola scena erotica del film mette lo spettatore a disagio fin da subito, ma a questo punto si è già talmente dentro al discomfort che nessuna attesa è ormai accettabile. Nel godere l’atto, Beau si sente liberato dalla maledizione del padre e redento da tutta la propria inadeguatezza, ma è a quel punto che ogni nuova certezza si pietrifica. La sua compagna si cristallizza in una posa rigida e senz’anima sotto il vivo sguardo della madre che in realtà ha inscenato la propria morte e lo sorveglia fin nei momenti più personali, corrompendo addirittura il terapeuta del figlio affinché venga messa a parte dei pensieri segreti di Beau.
Questo macchinoso colpo di scena è funzionale a rivelare con rassegnazione quanto l’ultima di una serie di maternità mal vissute – tra sentimenti contraddittorii, depressione e anaffettività transgenerazionale – possa fare danni atroci alla società. Una serie di dolori infiniti e aspettative impossibili in cui Beau non può prosperare né difendersi.
L’ultimo dei gironi infernali
Il giudizio materno lo pone sotto l’occhio di una enorme platea inscrutabile, al centro di un’arena cupissima, su una barchetta che non va da nessuna parte ma oscilla fragile su uno specchio d’acqua nera e immobile. Beau è così disperato e annichilito da implodere.
Il film è una trasposizione dei nodi psicanalitici legati alla frustrazione del piacere e al senso di controllo parentale in cui il rimosso del mostruoso membro gigante nascosto in soffitta è controparte delle acque stagnanti in cui il protagonista annaspa, specchio di una coscienza adulta che non può maturare in cui ogni aspetto del vissuto infierisce in modo diabolicamente concatenato.
A cura di Tiziana Elena Fresi.