Come Scintille nel Buio, il film prodotto dal CSC Carbonia della Società Umanitaria e diretto dal regista Daniele Gaglianone, è approdato al Biografilm nello storico Cinema Lumière di Bologna con una proiezione condivisa insieme a un altro film a tema Sardegna – l’attesissimo Deu Ci Seu di Michele Badas e Michele De Murtas – entrambi inclusi nella Sezione Eventi Speciali del Festival.
29 minuti di durata, frutto di una residenza artistica per giovani filmakers provenienti da tutta Italia promossa dalla Società Umanitaria sulla base di un finanziamento cine-portuale della Regione Autonoma della Sardegna. Nell’arco di due settimane, gli 8 partecipanti hanno potuto interfacciarsi al territorio e agli abitanti di Carbonia. Il cortometraggio tratteggia così lo stato d’animo di una città ancora fortemente legata alla memoria del proprio passato che cerca di proiettare se stessa in un futuro ancora sospeso tra buio e luce.Il Festival
Biografilm Festival – International Celebration of Lives è l’evento cinematografico dedicato alle storie di vita. Un pubblico appassionato di oltre 120.000 persone assiste dal 2005 al meglio dei documentari di recente produzione internazionale e non solo. Il cinema di qualità in anteprima e le biografie sono al centro del programma del festival, che include sia doc sia fiction.
Le Suggestioni
Carbonia è un prolungamento del suo giacimento minerario. La giornata del minatore è vissuta come una condanna infernale lungo un arco di tempo interminabile.
Nel film emergono la simbiosi che si instaura nel lavoro di miniera, la consapevolezza di uno spazio ostile condiviso, il senso di comunanza essenziale all’incolumità del gruppo e – in una prospettiva futura – la dinamica del ridurre al minimo la vita per sopravvivere in attesa del momento giusto per germinare.
Appartengono a questo luogo le facce scure dei minatori nel silenzio postprandiale imposto ai figli, così come la minaccia punitiva del cinturone. Un telefono squilla, due ordini di pizze interrompono il racconto di uno dei protagonisti, poi riprende con la stessa forza: i bambini di 40 anni fa – dice – strisciavano tra i cunicoli per gioco e incoscienza, per desiderio di esplorazione. Sembra normale quando si è abituati a respirare il pericolo quotidiano che aleggia su tutti.
Visceralmente, anche negli adolescenti di oggi il senso della città è ancora percepito come indissolubile dalla miniera dismessa.
“Sento come se ci fosse una nebbia, una foschia che ricopre la città e la mette all’interno di un torpore collettivo, dal quale è impossibile uscire e dentro al quale si soffoca. C’è qualcosa che dalle gallerie della miniera cerca di uscire fuori – per usare una metafora – ma apparentemente è solo carbone nero. Stare insieme al buio per trovare forza aiuta la collettività” – commenta Erika.
Emergono il bisogno delle nuove generazioni di farsi massa critica attraverso la ricerca, magari tra scaffali di biblioteche pubbliche sfornite, e l’urgenza di veicolare nell’azione una rabbia interiore alla quale dare forma a partire dalle concavità inospitali del sottosuolo.
Ribellarsi, qui, lo si fa anche attraverso l’attivismo politico o l’espressione musicale, ignorando lo scetticismo degli adulti.
Il conflitto tra stasi eterna e precarietà è riassunto nell’acquisizione di un punto di vista molto specifico; la visione diviene totalmente dipendente dalla luce della lampada. Si sviluppa così un formidabile colpo d’occhio, fondamentale per capire subito se c’è qualcosa fuori posto, un elemento di pericolo che intaccherebbe equilibri fragilissimi.
In questo tipo di narrazione, anche gli elementi legati a una dimensione puramente produttiva – come le due grandi strutture metalliche riportate in superficie, che sono sì vecchie attrezzature dismesse, ma assumono quasi più i connotati di un’installazione artistica.
L’intervista
In coda alla visione di sala abbiamo incontrato il regista e curatore del progetto Daniele Gaglianone.
Com’è nata l’iniziativa?
- È il risultato di un laboratorio di formazione per giovani filmaker promosso da La Fabbrica del Cinema di Carbonia. L’obbiettivo era fare un lavoro sulla città, con indicazioni di massima quali il rapporto tra il vecchio e il nuovo, il dentro e il fuori, ma abbiamo realizzato che ci interessava maggiormente il rapporto tra sopra e sotto. É un ritratto di persone e luoghi, costruito su varie traiettorie: quella della memoria, il rapporto tra generazioni, il modo in cui viene vissuto il presente. Un ritratto intimo delle persone che diventa ritratto intimo della città. L’idea era far dialogare la dimensione interiore dei nostri interlocutori, che la esprimono in modi e partendo da situazioni diverse – dal confronto con la politica, la musica o partendo da un disagio psichico/esistenziale – e il genius loci della città; questa suggestione del sottosuolo che continua a esistere benché inabitato, come un labirinto oscuro su cui tutto il resto si fonda, come se esso fosse l’inconscio della città per riferirsi in modo un po’ semplificato alla Psicanalisi di Freud e alle Memorie del Sottosuolo di Dostoevskij. La stessa suggestione l’abbiamo utilizzata per far dialogare il mondo di sopra e il mondo di sotto, che vuole anche dire, per queste persone, le cose che ho dentro come si relazionano all’esterno.
La città morta che catalizza le ferite interiori e una piccola raccolta di registri differenti.
- Tommaso, (nella sua ferita psichica, ndr) parla del seme che quasi muore per poter sopravvivere ed è una bella allegoria della resilienza e del fare i conti con l’ostilità di un ambiente – in questo caso la pesantezza della miniera anche intesa come eredità.
Di fatto si tratta di un passato recente che rimane nel nome stesso: una fondazione e una reiterazione – la città non esiste se non per quello scopo e sembra mancare una forza simbolica nel presente. Penso a come l’esperienza del comune pizzaiolo sembri vissuta come spoglia di valori rispetto alla realtà pur durissima del minatore.
- Anche gli elementi più banali in quel contesto risuonano in un modo estremamente particolare, c’è questa sorta di spettro ingombrante, questa assenza-presenza, con cui la città non può non fare i conti, né metterla tra parentesi, proprio perché la città è nata per quello scopo lì.
Una intelligenza spaziale nel riconoscere lo spazio ma anche nel riconoscere se stessi all’interno di quella precisa esperienza spaziale, spinge uno dei protagonisti – e altri come lui – a cercare attimi di raccoglimento in quei percorsi. Questo mi pare sia uno dei significati di quella comunanza cui ci si riferisce in un frangente del documentario, intesa come qualcosa che va oltre la solidarietà e trovo che questo sganci l’opera da una certa stucchevolezza che talvolta caratterizza la narrazione sulle comunità.
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- Sì, é una lettura assolutamente pertinente la tua
La fotografia del corto si conforma su un avvicendamento costante tra galleria e piazza, apertura e chiusura, ma a livello cinematografico mi ha colpito il riferimento al colpo d’occhio. Il minatore sviluppa un automatismo del fotografare la scena per intercettare pericolo o equilibrio e le due cose si uniscono esattamente nel medesimo sguardo. Trovo potentissimo il contrasto tra l’immediatezza di quel fotogramma e la dilatazione di tempo e pensiero necessarie a metabolizzarne le implicazioni.
- Sono contento che tu abbia colto queste dimensioni! In effetti erano tutte cose che anche noi leggevamo tra le righe.
Com’è nata l’idea di partecipare a questa istituzione del documentario biografico che è il Biografilm Festival?
- Ci siamo resi conto di avere tra le mani qualcosa che non era solo la documentazione di un lavoro ma un vero e proprio racconto e che forse valeva la pena di far fare a questo film una vita diversa da quella che aveva immaginato, come se fosse un film normale. L’UCCA – Unione Circoli Cinematografici Arci ha deciso di prenderlo in catalogo e farlo girare a livello nazionale nei loro circuiti. Abbiamo già avuto richieste informali anche da parte di alcune associazioni del tipo “sardi nel mondo”.
Dal punto di vista delle attrezzature e logistica questo corto ha avuto una gestazione privilegiata rispetto al workflow isolano?
- Sì, perché la Fabbrica del Cinema di Carbonia è un luogo esemplare ed efficiente che mette a disposizione attrezzature e persone che hanno la conoscenza tecnica per aiutare ad utilizzarle, anche in fase di post-produzione.
Cosa ti sentiresti di aggiungere?
- Vorrei che questo lavoro diventasse un primo frammento di un ritratto a mosaico dell’Italia intera. Altri posti della provincia italiana che vivono questa situazione di ricerca di un altro equilibrio, dove c’è un passato che persiste ed è anche un po’ ingombrante, che fa riferimento a cose che non ci sono più e che sono in qualche modo rimozioni. Le rimozioni sono molto presenti, non sono delle sparizioni. La rimozione è presente e quindi questo passato che si tenta di rimuovere ma non lo si può fare e questo futuro che non parte. Mi piacerebbe raccontare l’Italia attraverso altri ritratti di luoghi.
Una riscrittura snaturante del luogo da zero sembra sempre più facile rispetto a una evoluzione. Come si può agire? Chiaramente l’arte e la cultura hanno un ruolo fondamentale.
- Intanto facciamo le cose e speriamo che vengano accolte.
È precisamente a questo punto che ci risuona una delle voci di questo lavoro corale; oggi come allora, nella cognizione di un buio così spesso e profondo – che non si può rompere con le sole torce – “In un buio così totale, anche le scintille sono importanti per accendere una fiaccola”.
A cura di Tiziana Elena Fresi.