Jordi Penner è un giovane regista, sceneggiatore e docente trentino approdato in Sardegna al Figari International Short Film Festival col suo secondo cortometraggio intimista Pietre Sommerse (interpretato da Gabriele Falsetta e Michael Schermi), che gli è valso la partecipazione all’ambitissimo HollyShorts Film Festival di Los Angeles – 400 corti da tutto il Mondo a contendersi 4 nomination agli Oscar.
Lui su un treno, noi su un’isola, tra gallerie e maestrale abbiamo parlato di apnee su set lacustri e giochi sadici, fughe internazionali dalla provincia e ritorni idillici, della mente che pitcha e talent scouting dagli esiti inattesi, incontri sulla Walk Of Fame e rapporti disfunzionali, storyboard e dipendenze, cine-startup e potenziale liberatorio del cinema d’animazione.Attualmente sta lavorando a temi di violenza sociale nell’adolescenza (Re Boia) e agli scenari umani e immaginifici di Blackie: La Stanza del Tempo.
L’intervista
Già Amore Cane, il tuo corto d’esordio, era in corsa all’Oscar qualifying del The Place Film Festival. Questa estate sei stato selezionato all’Holly Shorts Film Festival di Los Angeles. Come ci sei arrivato?
Dal primissimo corto mi sono rivolto a Zen Movie senza avere idea di come funzionasse una distribuzione. Loro mi hanno inserito nel catalogo Tiny Distribution e gli ho dato carta bianca sulle iscrizioni, così ogni tanto mi arriva una bella notizia. Il Chinese Theater è una grande emozione! Pezzi grossi cercano l’anteprima lì – recentemente è toccato a La La Land.
I festival sono anche occasione di networking e workshop. Quali altri aspetti ti hanno insegnato qualcosa, forse il parere di altri addetti ai lavori o presentare i tuoi progetti ai produttori durante i pitch?
Mi piace quando un festival pensa agli autori, l’HollyShorts ha previsto workshop interessantissimi, come quello sulla legge spiegata ai filmaker tenuto da uno dei più importanti avvocati americani, oppure su come passare dal corto al lungo. Oltre a dividere lo schermo con altri corti prodotti da gente megagalattica come Tom Hanks e Matt Damon, è bello anche tornare lì da studente, dove ho già trascorso un anno di formazione. Inoltre ai festival nascono sinergie con altri creativi e sul lungo periodo conta costruire una squadra solida. Pitcho in ogni momento della mia vita, ma non mi era ancora capitato di farne uno vero e spero che dall’occasione che ho potuto sfruttare al Figari International Short Film Festival il risultato sia veder prodotto il mio terzo progetto.
Chi hai o avresti voluto incontrare al Chinese Theater?
Forse avrei voluto incontrare Ben Affleck, che da giovanissimo vinse l’Oscar per la sceneggiatura di Will Hunting – Genio Ribelle e nonostante molti pensino a lui come all’attore belloccio in realtà è un super sceneggiatore.
Vuoi raccontarci la tua esperienza al festival?
L’impatto è impressionante e il festival è lungo, 11 giorni intensivi con tantissime proiezioni ed è impossibile vedere tutto. 400 corti da tutto il Mondo – tra cui il mio nella sezione Family Drama – per 4 selezioni agli Oscar in palio.
Eravamo sulla Walk Of Fame ed era bellissimo vedere le foto dei nostri grandi, come Anna Magnani, e i costumi originali di Star Wars nei corridoi mentre ti dirigevi in sala per la proiezione del tuo film, alla massima qualità possibile, con un grande pubblico di qualità.
Contesto importantissimo anche per fare rete con la nuova generazione di autori, tutti con visioni completamente diverse. Ad esempio chiacchieravo con una produttrice cinese e dopo dieci minuti che ci parlavo mi sono reso conto che si trattava di Yingtong Li, una delle autrici emergenti più interessanti che io conoscessi, già vincitrice a Cannes col film Silent Whistle. Tante le attività collaterali, ad esempio ci hanno invitati in Kodak e l’azienda mostrava le pellicole e si sponsorizzava per future collaborazioni, in Panavision ci hanno invitati a provare i nuovi set virtuali, gli sviluppatori degli schermi ci hanno fatto un corso e ho imparato pregi e difetti degli sfondi led – molto bene l’impiego per camera car ad esempio, non benissimo per l’impossibilità di mettere a fuoco lo sfondo.
Ero a HollyShorts anche in qualità di brand ambassador per WeShort; il fondatore Alex Loprieno mi ha chiesto di presentare la sua piattaforma di cinema breve, che è il futuro perché riempie gli spazi della nostra vita frenetica.
Mentre sei sul tapis roulant ad esempio è più facile che tu sia lì a guardare un corto piuttosto che un lungometraggio e questo avvicina al cinema anche chi non ha molto tempo da dedicare ai film.
Porterai le tue esperienze in dono ai tuoi studenti del Liceo Artistico?
Cerco di trasmettergli ciò che apprendo e ciò che è mancato a me al liceo, così che possano crescere più rapidamente di quanto non sia accaduto a me. All’Università di Cinema ci sono andato dopo la scuola, ma le occasioni per imparare qualcosa di veramente pratico e produttivo le ho avute dai ventitre anni all’UC Santa Cruz, in California.
Dopo il DAMS di Bologna e gli studi ad Amsterdam, certamente più teorici.
La storia del cinema e l’analisi del film rimangono strumenti importantissimi per la scrittura. Devi sapere ciò che è successo prima, conoscere la letteratura e l’antropologia, ma capire il mercato e il funzionamento di un set sono aspetti che ho appreso alla UCSC e ci sono voluti tanti anni di videomaking prima di approcciare set più strutturati.
Sul set del tuo primo film Amore Cane si è creata confusione nello switch di ruolo tra insegnante e regista?
Quelli coi ruoli un po’ più impegnativi erano adulti, gli altri addirittura minorenni.
Qualcuno dei miei studenti mi ha detto che dopo quell’esperienza avrebbe cambiato strada nella vita.. (ride, ndr), ma almeno lo hanno capito presto!
La comunicazione è sempre automatica tra noi, ho mantenuto la stessa modalità, lavoro così con loro anche a scuola su un mini-set e poi porto i migliori sui miei. Alcuni stanno facendo un bellissimo percorso e sono contentissimo di vedere quanto mi superino in fretta.
Hai coinvolto nei tuoi film altri giovani che non facevano parte del contesto cinematografico, come il ragazzino che si immerge nel lago di Pietre Sommerse e osserva il mondo dal fondo, oppure gli storyboard artist coi quali hai collaborato nella preparazione del corto.
Il primo è un apneista professionista alla prima apparizione, la scena non richiedeva una grande prestazione attoriale ma sportiva e nonostante mi sia stato segnalato dalla Trentino Apnea mi sono reso conto della difficoltà, infatti volevo immergermi io per mostrargli come fare – perché quello era un gioco che facevo da piccolo – ma tutta la produzione mi ha trattenuto perché ammalarmi durante la lavorazione era consigliabile (ride, ndr). Da questa esperienza lui si è appassionato al cinema e so che vorrebbe proseguire. Gli storyboard artist sono Zoe Copertino e Riccardo Giampiccolo – con quest’ultimo e Vlad Marcu sto lavorando al concept design di un nuovo trattamento scritto insieme a Elisa Faccioni. L’idea sarebbe di proporre questa animazione in America.
Che tecnica vorresti usare?
Si chiamerà Blackie: La Stanza del Tempo e penso al 2D. Ho chiesto a persone ben più esperte di me se fosse il caso che un regista di finzione si avventurasse nell’animazione. Ne ho parlato a Joao Gonzalez – che ho conosciuto in occasione del Figari Film dove era giurato ed oltre ad essere vincitore dell’Oscar per Ice Merchants (il film più premiato nella storia del Portogallo) ora è diventato uno dei più giovani membri dell’Academy. La storia gli è piaciuta e si è detto favorevole a una mia incursione in questo mondo. Lavorare con i concept artist mi risulta anche abbastanza facile essendo io un grandissimo appassionato di animazione e fumetti.
Qualche riferimento a opere per te seminali?
I classici Akira e Ghost in The Shell sono due mie grosse reference di tipo distopico decadente e con un certo gusto post punk, ma il film che progetto sarà adatto anche alle famiglie. Sarà completamente diverso da quello che ho fatto fino ad ora, mentre col lungometraggio Re Boia proseguirò in senso realistico, drammatico, concentrato sulle relazioni, con problemi sociali che appartengono alla mia esperienza personale che come sempre io rigiro e rielaboro per creare qualcosa di coinvolgente, ma con un contenuto che sia anche di utilità.
Amore Cane e Pietre Sommerse trattano di rapporti disfunzionali – amoroso e familiare, rispettivamente. Con una punta provocatoria ti chiederei quale disfunzionalità tratterà Re Boia.
Sarà un film alla Larry Clark su una compagnia di ragazzi che vivono un clima di abusi psicologici e fisici reciproci senza rendersi conto della dinamica di branco che li include e nel quale riportano fattori disfunzionali che appartengono alla loro sfera familiare.
Il titolo si riferisce al gioco che fanno, realmente esistente in Italia: consiste nel lanciare un pacchetto di sigarette in aria per definire – a seconda di come ricade – chi è il re, chi il boia e chi gli schiavi. Il primo decide la pena, il secondo la perpetra e gli altri subiscono. Si tratta di un gioco da bar, ma di fatto è pura tortura e mi pare riassuma bene la condizione maschile della provincia, che è di costante violenza per dimostrare chi è il più forte.
Il gioco si spingerà oltre il consueto, sarà rimosso il limite della tortura inflitta generalmente alle sole mani. La tortura diventa di qualsiasi tipo da quella fisica alla vessazione morale con conseguenze estreme per tutti.
Emerge il bisogno di portar con te la provincia anche quando sbarchi a Hollywood coi tuoi film. Pietre Sommerse ritrae due fratelli completamente isolati, con un’astrazione che – complice il forte simbolismo del lago – fa scontrare i silenzi dei loro traumi infantili. Già in Amore Cane il protagonista cerca ambiziosamente la fuga e un lavoro all’estero, ma questa forza centrifuga è bloccata da manipolazioni e pressioni sociali.
La ricerca della libertà personale c’è sempre stata nei miei racconti; nel libro Pieno Controllo il protagonista è consapevole di essere un personaggio e desidera liberarsi del suo scrittore.
Fin da bambino mi sentivo stretto in una piccola comunità ed ero mosso da curiosità verso l’altrove. Avevo un istinto alla fuga nei romanzi, nei film, ero assetato di novità e di capire com’era tutto al di fuori.
Crescendo ho vissuto in vari continenti e ho capito il valore del posto dal quale venivo – ora lo vedo come un piccolo paradiso. Quella spinta si assopisce crescendo e trovando pace in se stessi, ma questo tipo di ricerca e slancio verso l’esterno permea tutto ciò che faccio.
Tradurre le specificità della propria provincia è una cifra autoriale?
Penso a Cecilia Bozza Wolf e al suo film Rispet, che è tutto in dialetto trentino e trovo sia una scelta coraggiosa, oppure a Giorgio Diritti con Il Vento Fa il Suo Giro, che ha utilizzato l’occitano – lingua praticamente sconosciuta – e sicuramente lui nello spostarsi sull’antropologico tende a dare un’aura di autorialità. Io non ho ancora fatto un tipo di scelta che va verso la descrizione documentaria di una popolazione, penso che i film siano universali, perciò se questo film lo facessi in inglese nella contea di Nottingham funzionerebbe ugualmente. Trattandosi di violenza tra gli adolescenti, che è infinitamente diffusa, potrebbe essere ovunque.
Con giochi sadici consimili: ognuno ha i suoi. Anche Pietre Sommerse si basa su un gioco che facevi da bambino. Il percorso dal ludico al dark sta diventando una costante nel tuo cinema?
Gioco e sana competizione mi sono sempre piaciuti. In famiglia si è sempre giocato tanto con giochi di tutti i tipi: in scatola o digitali che fossero.
Re Boia non mi è mai piaciuto e sì, si fa oscuro, è anche quello un mio elemento personale che non avevo pensato si riflettesse così nei film, ma spesso sono le altre persone a farmi notare cose che non mi ero reso conto di averci messo dentro.
Di per sè quello ritratto in Pietre Sommerse era un gioco innocente: si correva con una pietra sott’acqua trattenendo il respiro. Questa immagine molto iconica mi rimaneva impressa come un simbolo e siccome ero alla ricerca di immagini di questo tipo mi sono chiesto cosa potesse raccontare, perché parlandone agli altri vedevo il loro interesse.
In questa trasposizione diremmo che racconta il rimosso che blocca le energie di crescita personale e le relazioni umane.
Anche la memoria, il percorso della vita, il masso che ti trascini dietro e ti costringe a riprendere aria a galla prima di tornare giù.
Recentemente al Quarantine Festival in Bulgaria diverse persone mi hanno avvicinato per dirmi che si riconoscevano in quella storia, che che anche il loro fratello era una pietra sommersa.
É bello pensare che abbia smosso cose autentiche e dato una rappresentazione coerente col loro sentire.
In altra occasione ti ho chiesto se non avessi timore di associare i posti della tua infanzia, pieni di bellezza, a un’emotività fortemente disforica com’è quella di Pietre Sommerse.
Il Cinema per me è rappresentazione. Vedo scollegata la realtà dalla location e conoscendola molto bene sapevo che avrebbe avuto l’esatto mood che ricercavo. Non ho mai avuto timore che il fatto di ambientare lì una storia negativa non venisse accolto favorevolmente dalle persone del posto, anche perché l’intento è positivo. Non solo dipendenze da sostanze ma anche malattie mentali che spesso originano da traumi sono in gran parte delle famiglie, ma abbiamo paura di parlarne perché è qualcosa che non possiamo controllare.
Se c’è un tabù che resiste in occidente anche tra le persone più inclusive è quello del disagio psichico; tendi a non parlare del tuo parente che ne soffre e invece forse dovremmo essere più istruiti fin dalla scuola su come aiutare queste persone a trovare la loro forza.
Sarebbe fondamentale sostenere anche caregiver e parenti, invece le dinamiche di isolamento sociale che ingoiano interi nuclei familiari sono prassi diffusa.
Esatto, se l’intera comunità comprendesse questa cosa la rete diventerebbe di protezione e non di isolamento.
Quali altri tabù vorresti affrontare?
Vorrei raccontare in maniera autentica la droga giovanile in modo non artefatto, magari anche abbordabile per il grande pubblico, come ha fatto Trainspotting.
Parliamo dello stile dei tuoi film. Nel primo corto prediligi primissimi piani e dettagli, nel secondo dichiari di esserti reso conto delle potenzialità della grande tela cinematografica nella resa degli ampi spazi. Dai prossimi progetti cosa aspettarci?
Ogni storia e ogni momento della narrazione hanno bisogno di una inquadratura specifica e non penso mi legherò mai a un unico linguaggio, ma ho capito meglio il valore delle due dinamiche. Sono molto autocritico e vedo moltissimi errori in entrambi i film, ma ammetto di essermi innamorato del campo lungo e se potrò includere anche qualche essere umano in più sarebbe bello fare scene di massa. Si lavora anche in termini produttivi e se scrivo una battaglia con 1400 persone, già è un problema se non c’è budget.
L’animazione ti consentirebbe di spingere questo aspetto.
Esattamente, l’animazione ti libera nell’espressione; a livello produttivo non fa alcuna differenza quanti personaggi siano o in quale ambientazione storica. So che un film d’animazione costa di più rispetto a uno di finzione ma se ne avessi l’opportunità potrei lasciar fluire la mia creatività senza filtri.
Io dentro di me sarei molto più immaginifico e distopico, ma ho sempre cercato di incanalare le mie idee in qualcosa di fattibile.
La tua tendenza al distopico continuerebbe a soffermarsi sull’introspezione, piuttosto che assecondare l’elemento spettacolare o l’astronave aliena?
Si andrebbe non troppo distanti nel futuro, sullo stile di Black Mirror, con piccole grandi elementi che cambiano radicalmente l’approccio dell’essere umano alla realtà. Un episodio che mi aveva colpito era quello in cui si poteva memorizzare ogni cosa ed era possibile tornare indietro per rianalizzarla, cosa che virtualmente è già possibile con grande impatto per l’esperienza umana. Blackie: La Stanza del Tempo, senza anticipare troppo, si basa sull’unica invenzione, mentre nel romanzo che sto scrivendo e chissà se mai finirò il Mondo è molto più ampio, tante le variazioni rispetto alla nostra realtà, ma una costante in entrambi è che sono popolati da tanti personaggi, come pure Re Boia che ha cinque archi narrativi diversi. Mi è sempre piaciuto il multiplot alla Altman, che anticipava sui tempi quella che ora è la serialità lunga. Mi piacerebbe fare un film multiplot, mentre alla serialità non penso ancora.
Jordi Penner conclude la frase con un accenno di risata, ma forse mentre lo nega ci sta già pensando.
A cura di Tiziana Elena Fresi