Quinto giorno di sala per Mi fanno male i capelli, film inusuale di una delle registe più interessanti del panorama italiano: Roberta Torre. Un esperimento sul cinema a partire dal pensiero di Monica Vitti sulla purezza delle sensazioni quando si scordano i fatti. “Lei non si è dimenticata di te, ti ha incluso nella sua fantasia” è l’indicazione della rotta per Filippo Timi, il marito di Monica/Alba Rohrwacher, affetta da Sindrome di Korsakoff e convinta di essere la diva de Il Deserto Rosso.
La leggerezza melanconica di Monica Vitti non è facile da interpretare senza scivolare nel vacuo svaporato e non si può far a meno di affiancare l’originale all’atteggiarsi di una Monica normale. La sua esigenza di aderire a un’identità si rafforza nello scemare dei ricordi personali. La Sindrome di Korsakoff rende dimentichi di parole comuni e persone care, ha risvolti creativi che sfociano nella follia quando confonde realtà e allucinazione, così chi veglia sulla persona, può scegliere di farsi introiettare in questa nuova percezione di realtà.
La tabula rasa dei ricordi legati alla relazione non annichilisce il matrimonio, ma trova nuova modalità nella condivisione citazionista, così il marito di Monica ne asseconda le convinzioni, ripete dialoghi che furono di Mastroianni, gesti di Alain Delon e danze che sembrano richiamare una memoria del corpo, tenace al punto da sopravvivere a pensieri sempre più offuscati.
Filippo Timi nei panni di Marcello MastroianniUna scena del film
Alcuni personaggi insidiano la casa di Monica; la presunta amante del marito, gli strozzini che minacciano il tetto coniugale. Proprio la casa è opportunamente collocata su una spiaggia – che non ha nulla del pretenzioso paradiso terrestre ma rimane puro simbolo di astrazione, con quel piatto orizzonte e le orme cancellate – ed è arredata dagli scenografi in modo da suggerire uno spazio fuori dalla contemporaneità, con un telefono a disco.
A riprova che la regia spinge sul subliminale, i forti disegni di tappezzeria nelle stanze attraversate da Vitti, marcano ora in modo appena percettibile la camera da letto della protagonista, che passa la sua vita qui salvo perdersi appena poco più in là, superato un leone di pietra che sembra vivo, in riva al mare antistante.
La camera da letto rimane però il luogo privilegiato del dialogo tra le due Moniche attraverso l’immagine riflessa; lo specchio interfaccia il nostro cinema di quegli anni e quello nuovo di Torre.
Qui Rohrwacher si cambia continuamente d’abito, prova i cappellini che le presta la Vitti attraverso il portale ovale. Giureresti che se potessero si scambierebbero i nasi, alla Pirandello, ma il candidato agli Oscar Massimo Cantini Parrini si è mantenuto sui costumi – elemento fondamentale della messinscena, perché è dal travestimento che la fantasia trae credibilità per la Monica di Alba. L’abito blu con le stelle argentate di “Ma ‘ndò vai se la banana non ce l’hai?” e la dimenticanza di un monile tra i capelli certificano una fedeltà che trascende l’esigenza del perfettamente combaciante, mentre i golfini colorati comunicano umori mutevoli, da accogliere nell’esperienza di sé.
Il Deserto Rosso – Michelangelo Antonioni“L’Eclisse” – Michelangelo Antonioni
Una stola di pelliccia accompagna la gestualità (e su di essa la sensibilità dello sguardo cinefilo) ovvero simula quei movimenti della macchina da presa che avvolgevano Monica Vitti in ogni suo film, coccolata da regie altissime che ne potenziavano il fascino naturale, l’intenzione in ogni cenno della sua presenza scenica, esaltavano le sue modalità passionali e riflessive, sempre ironica, sempre altamente conscia anche quando persa.
Il Cinema di Roberta Torre continua così a far reagire idealmente rose mature e sali d’argento, anteponendo il sentire all’egemonia del ricordo.