É un viaggio biografico nella genesi della Costa Smeralda La Bella Addormentata di Vanni Gandolfo. Testimone privilegiato, uno dei primissimi coloni dell’allora nascente Porto Cervo, nonché figlio dell’ingegnere che contribuì a completarne l’opera. Paradiso artificiale, gioiello architettonico e utopia del lusso concepita dal giovane principe ismailita Karim Aga Khan nello scenario naturalistico di intatta purezza che connota la Sardegna nord orientale. L’intervista al regista, alla produttrice di Eurofilm Simonetta Amenta e allo sceneggiatore Fabio Astone, in occasione della prima mondiale del film.
“Il mio papà era un ingegnere padovano di 37 anni quando è stato chiamato dall’Aga Khan in persona per dirigere la seconda fase della costruzione della Costa Smeralda. Erano gli anni ’70, il progetto era agli inizi e c’era pochissimo quando noi bambini siamo stati portati da piccolissimi nel Paradiso Terrestre. Eravamo dei coloni – una ventina di famiglie internazionali di professionisti – e facevamo una vita spensierata a contatto con la natura, ma dopo alcuni anni siamo stati riportati a vivere in continente, perché mia madre non voleva farci crescere in un posto finto, che riteneva non avesse alcun contatto con la realtà.Il film nasce da questa esigenza personale, ho voluto raccontare un punto di vista privilegiato, diverso da quello di chi ci va solo in vacanza, ma diverso anche da quello di chi ci vive. Per me la Costa Smeralda non è quello che si racconta ciclicamente sui siti di gossip, né il solito mito dell’Aga Khan che salva i pastori dalla miseria.
I miei amici sardi mi dicevano che quella non è Sardegna, per tanti anni io stesso ho contestato mio padre dicendogli che aveva contribuito a costruire una cosa finta piena di ricconi. Tutto vero, ma di quell’esperimento antropologico, sociale e architettonico unico al mondo mi interessava anche il rovescio della medaglia.
Il Principe arriva nel ’61 e si compra 35km di costa, investe una cifra enorme – 47 miliardi solo per quella zona a fronte degli 80 miliardi della Cassa del Mezzogiorno e del Piano Marshall, che dovevano bastare per tutta la regione. Una sproporzione enorme.
Così 60 anni fa in Costa Smeralda vengono impiantati i primi depuratori mai installati in Europa, viene redatto un piano edilizio ferreo, dove non è l’uomo che comanda sul paesaggio, ma è il contrario, ed è il primo posto dove viene sviluppata la paesaggistica con studio sulle piantumazioni.
Si trattava di un progetto avveniristico per quegli anni, pur se fatto per quell’élite, che è l’elemento che non condivido. L’Aga Khan lo ha concepito come ricerca del bello per sé e la sua cerchia ristretta, poi negli anni questa cosa è diventata un’icona popolare e com’è giusto che sia l’opera d’arte è diventata accessibile a tutti.
Nei primi anni 2000, con Berlusconi e Briatore, nell’immaginario collettivo tutta la Gallura viene identificata con la Costa Smeralda, cosa che non è perché tecnicamente è una realtà specifica, con un consorzio privato. Volevo raccontare un posto che è conosciuto in un certo modo ma dietro ha molto di più, non per assolverlo o condannarlo ma per capirlo, perché trovo ci sia tantissima incomprensione” – così il protagonista Vanni Gandolfo.
I sardi intendono ancora la Costa Smeralda come non-Sardegna?
Dopo 60 anni ci sarà ormai qualcosa di vero, ma è difficilissimo parlare per la gente sarda.
È stata una forma di colonizzazione moderna fatta con i miliardi e non con le spade.
Da un lato assolviamo l’Aga Khan perché qualche altro speculatore avrebbe fatto i palazzoni, d’altro canto lui compra le terre pagandole bene per quello che erano – terre da pascolo e agricoltura – ma di certo non le paga bene per quello che sono diventate. Non è corretto dire che ci sia stato un inganno, ma bisognerebbe trovare un bilanciamento.
La gestione di queste compravendite ha coinvolto mediatori del posto. Per i più critici avrebbero agevolato la svendita, ma nella prassi facevano ottenere guadagni più vantaggiosi ai proprietari delle terre – impreparati alla cospicua entità di simili transazioni. La mediazione di questi soggetti che interfacciavano gli interessi delle parti è indagata nel film? Avete avuto contatti diretti?
No. È quasi impossibile parlare con quanti hanno venduto o con i loro eredi. C’è una grandissima diffidenza. Due libri fondamentali nelle mie ricerche, del giornalista olbiese Guido Piga, indagano proprio gli atti di vendita. Per esigenze narrative ho affidato questo aspetto alle testimonianze LUCE e RAI, quasi una sorta di propaganda che ha contribuito secondo me in maniera importante a creare la favola del Principe.
C’è però la storia di un’imprenditrice di Abbiadori, sua nonna aveva deciso di andare controcorrente e non vendere. Probabilmente all’epoca dicevano che era matta, ma a conti fatti forse ha fatto la scelta giusta e non tanto perché avesse visto molto più in là, ma perché amava quella terra.
Come farsi custodi di un territorio.
É anche una bella storia di riscatto. Questa famiglia ancora possiede queste terre e mi raccontavano che per tantissimi anni l’Aga Khan ha cercato di farsele vendere, poi a un certo punto pare lui abbia chiesto loro che cosa ci volessero fare. Allora hanno fatto una sorta di patto e li ha aiutati a portare avanti l’albergo che volevano costruire. Una cosa al contrario, a riprova dell’ottimo rapporto che il Principe aveva con la gente del posto. Tutt’ora è molto amato.
Pensiamo a com’è strutturata Porto Cervo: il progetto cerca di integrarsi col territorio nel modo meno traumatico possibile, con un design immediatamente riconoscibile caratterizzato da linee curve e minimo impatto. Come avete sviluppato nel film il discorso architettonico e paesaggistico?
L’architettura è visivamente molto presente, la vediamo dalla barca con delle lenti grandangolari molto ampie e si vede quanto poco impatta. Si vede pochissimo dal mare ed è anche l’unico punto di vista possibile. Se ne parla anche in storie meno note, ad esempio c’è un pezzetto d’archivio dove Jacques Couëlle parla della sua idea della casa come rifugio per l’uomo e dunque deve integrarsi col paesaggio. C’era una coscienza ambientale, non so se per una questione estetica o per un reale sentimento ambientalista, però lo hanno fatto.
Se ne parla, ma vado sulla mia storia personale in quei luoghi. Un commento sul film mi ha molto divertito, diceva che sembra la storia di una famiglia che assiste alla costruzione di San Pietro. A mio Padre chiesero di andare a costruire la città ideale, molto diversa dalla Porto Cervo attuale, che è diventata una galleria di boutique di grande lusso.
La visuale è spesso preclusa da enormi cancellate, recinzioni impenetrabili e accessi riservati a protezione della privacy.
Possiamo aprire un ampio dibattito su questo punto (ride). É il lato che non mi piace, ma si è sviluppato recentemente. Una volta era tutto molto accessibile e senza guardie armate, le case non venivano neanche chiuse a chiave perché era un posto talmente elitario ed isolato. Mia mamma raccontava che negli anni ’70 lì c’era una grossa colonia hippie – hippies ricchi, obiettavo io, ma molto alla mano.
Ricordo l’Aga Khan girare senza scorta sul suo Maggiolone.. per lui il senso del lusso era anche il non apparire, poi chi voleva andava a mostrarsi all’hotel Cala di Volpe. Giravano persone importantissime, c’erano i Beatles in piazzetta e nessuno li importunava, non c’erano paparazzi.
Nel momento in cui ha smesso di essere un luogo elitario, è cambiata l’idea di lusso ed è arrivata un’altra mentalità con una società completamente diversa in cui si tende ad apparire, sono arrivate anche le cancellate.
Questo film evidenzia scelte estetiche improntate a una sobrietà che ne fa un’anti-cartolina della Sardegna. Nel suo omaggiarne le bellezze naturali dirompenti, compie scelte estremamente sobrie. Ai ben noti colori del mare sono preferite le silhouette delle rocce modellate dal vento. Trova che un’impostazione più spettacolare, diciamo classica, sarebbe stata controproducente per il focus che voleva darsi di questi luoghi, avrebbe distratto dal racconto?
Per me il tema centrale doveva essere la natura, quella parte di Gallura per me rappresenta quello. La Sardegna da cartolina la conoscono tutti, volevamo fare qualcosa che anche visivamente fosse diversa. Volevo restituire la Sardegna che ricordavo. I colori sono tenui, con la roccia che a sera si accende.
Quali scelte tecniche e narrative hanno guidato le riprese?
Abbiamo girato in formato cinematografico 6K con grandangoli da Cinema, che danno un effetto di ampiezza, e usato lenti degli anni ’70/’80, che tolgono la definizione netta tipica del digitale ammorbidendo l’immagine. Il resto è in pellicola, proprio per ricreare quel posto magico dove ho vissuto.
Quattro mesi prima dell’anteprima al Biografilm festival di Bologna ho trovato un tesoro inaspettato a casa di mia madre! 100 filmati in Super8 che nessuno aveva più visto in 40 anni, con una grande quantità di informazione nonostante la pellicola sia di piccolo formato.
La prima scansione è stata fatta in casa, per giorni ho mandato i Super8 in play e ogni tanto buttavo l’occhio sul display catturato da cose che mi sembra incredibile poter rivedere, tra le quali proprio mio padre. In origine avrei voluto fare il film con lui, ma essendo morto 25 anni fa ho dovuto integrare la parte ingegneristica con l’ausilio di un suo collega. Nella prima versione mio padre non c’era, però era importante che comparisse e grazie a questi filmati è diventato possibile.
Questo forte impatto emotivo ha orientato la selezione dei materiali da includere nel montaggio finale?
Sono partito dai muretti a secco, noi piccoli nella casa, la natura incredibile raccontata da mia madre. Queste sono gli elementi emotivi, tra quelli narrativi ho una bellissima inquadratura di mio padre in aereo mentre nel ’75 va da incontrare l’Aga Khan, ma purtroppo non ci sono immagini dei due insieme.
Avevate rapporti quotidiani con la gente del posto?
Era un villaggio e una comunità che comprendeva noi coloni, i locali che lavoravano per il consorzio e pochi altri. Il giornalaio ad esempio, nessuno sapeva la sua storia, forse era toscano però aveva deciso di trasferircisi per qualche ragione e aveva un ruolo sociale, perché la sua attività fungeva da bazar ma anche da ritrovo.
Io ho studiato ad Abbiadori in una classe mista. Eravamo come alieni e si creavano enormi differenze sociali; il rapporto col figlio del pastore evidenziava una diversità non voluta.
Come avete affrontato la realizzazione del film dal punto di vista produttivo?
(Amenta) Questo è il terzo film in 5 anni che giro in Sardegna e ho visto già una crescita. Adesso si fanno tanti film, da La Sirenetta Disney a La Bella Addormentata. (ride). Prima era quasi impossibile avete un aiuto sia economico sia pratico, trovare risorse e persone. La Sardegna ha fatto passi enormi negli ultimi dieci anni, io sbandiero i quattro mori, ma c’è ancora da fare.
La cosa più difficile – io sono siciliana e l’ho visto anche lì – è far crescere le maestranze locali, ma questo richiede tempo. La Film Commission però è entrata subito nel progetto e spero ci aiuti nel dare visibilità al prodotto.
Nelle interviste sul cinema sardo contemporaneo ricorrono le skill di Nevina Satta, presidente della Sardegna Film Commission.
Incontro Nevina, le faccio la mia presentazione convinto di ricevere la solita risposta “Non è Sardegna” e lei invece mi dice “Oh, finalmente!”, si dice piacevolmente stupita dal fatto che finalmente ci sia qualcuno che quella cosa lì l’ha vissuta e che ne parli in maniera differente. La stessa cosa mi ha detto il direttore marketing del Consorzio quando ha visto il film.
(Amenta) É una storia che non si conosceva, o solamente per come viene raccontata oggi. Io stessa ho scoperto così di quello che ha creato il Principe e il modo in cui la Costa Smeralda è diventata quello che è.
Come vi siete regolati con la scrittura?
Abbiamo scritto il film in soli tre giorni, prima della scadenza del bando. Sono riuscito a fare tantissime riprese fuori stagione basandomi sul trattamento e dopo un po’ mi si è affiancato lo sceneggiatore sassarese Fabio Astone, che mi ha dato quel punto di vista fondamentale per raccontare una terra complessa, perché non è facile parlare della Costa Smeralda, ma neanche parlare della Sardegna.
Ho l’impressione che anche gli autoctoni abbiano metabolizzato molto poco questo discorso. Il momento della scrittura è servito anche ad elaborare il vissuto personale?
(Astone) Con Vanni abbiamo fatto lunghe sessioni di chiacchiere, è stato un work in progress in cui nulla era chiaro all’inizio. Abbiamo cercato di capire cosa raccontare, spingendo sul lato intimo, perché è molto difficile spogliarsi completamente nel parlare di sé.
É stata una reciproca contaminazione di idee in cui io ho dato lo sguardo di chi è cresciuto in Sardegna, ma ho anche imparato a scoprire quel luogo in modo diverso.
Che rapporto credete ci sia tra il turismo di massa e quello di lusso in Costa Smeralda, attualmente?
Il turismo di lusso porta il suo indotto e un traino per il turismo di massa, che per imitazione e voglia di apparire lo segue. Questa apertura ha prodotto un enorme indotto a livello locale ed è evidente che Olbia sia diventata la capitale assoluta della Gallura. Fino agli anni ’80 Tempio Pausania era più agiata, con attività industriali sul sughero, ora è un paesello morente. Fa impressione come si sia ribaltata una situazione che andava avanti da secoli e questo dipende dallo sviluppo della Costa Smeralda che ha portato grossi flussi sulle coste.
Negli anni ’50 la politica locale non intendeva puntare sul turismo ma sull’industria pesante e progettava l’apertura di una raffineria che avrebbe portato tranquillità economica in quella zona. Invece arriva questo signore che fa lo sgambetto a tutti con questo progetto, poi copiato a Baia Sardinia, San Teodoro, Porto Rotondo.
Essendo il primo vero insediamento turistico in Sardegna, la Costa Smeralda ha influenzato la storia e lo sviluppo in tal senso di quasi tutta l’isola e in qualche modo questo ha aiutato a preservarla. Il litorale sardo rispetto ad altre zone d’Italia si è salvato e questo forse lo si deve un po’ al fatto che imitarne il modello implicava costruire basso; a Porto Cervo due piani, a Baia Sardinia magari tre.
Pensi che il Consorzio Costa Smeralda regga in questa accezione di salvaguardia del territorio?
Il Consorzio continua ad avere regole architettoniche molto precise, le hanno ammorbidite perché è cambiato il concetto di lusso e adesso la casa non deve più sparire, anzi, ma si sono aggiunti vincoli regionali che impediscono l’edificazione selvaggia.
Il turismo fuori stagione è poco valorizzato, privilegiato soprattutto da francesi, tedeschi, inglesi..
Io ho raccontato il fuori-stagione, in pratica è un film sulla Costa Smeralda senza Briatore (ride) e un solo riferimento a Berlusconi, non si poteva tralasciare la bandana. Poi, meglio non avere gente a maggio, perché è più bello (ride), ma in agosto è come stare sul Lungotevere di sabato sera, invivibile.
Sarebbe bello vedere una stagione turistica più lunga in Sardegna, è assurdo che 20 giorni in un anno dettino la narrazione di un posto, con questo film ho voluto dare una dignità diversa a questo luogo e trovo sbagliato che certi locali rimangano aperti solo attorno a ferragosto, succhiando quello che possono per poi riaprire l’anno seguente.
(Astone). É proprio un fatto culturale; l’Italia si ferma ad agosto e va in vacanza ad agosto e piuttosto si fa massacrare. Il resto dell’anno sono gli stranieri a godersi l’isola.
Aggiungereste qualcosa a queste riflessioni?
Uno spunto secondo me molto forte che viene fuori dal documentario è il cambio di nome. La cosa più violenta che viene fatta è questa, i nuovi proprietari decidono da un giorno all’altro che Monti di Mola diventa Costa Smeralda.
Levigata o incisa sui graniti della Gallura, bellezza è quiescente.
A cura di Tiziana Elena Fresi