“Inizia un progetto. Fai quel che vuoi. Impara facendo..”
Un regista in preda a impulsi creativi geniali e sconclusionati ruba il proprio film ai produttori e si rifugia nelle campagne francesi per sbrogliarne il montaggio. La sua mente è continuamente sbalzata da un potente flusso di idee; a volte catastrofiche, altre innovative, sempre bizzarre, in puro stile eminentemente artigianale marchiato Michel Gondry. Mentre un nucleo di collaboratrici fidate assestano i contraccolpi dei suoi momenti più squilibrati, Mark s’inventa il Libro delle Soluzioni; un manuale d’emergenza per l’estro, che ha ispirato questo meta-film autobiografico apprezzatissimo a Cannes e distribuito ora in Italia da IWonderPictures. Abbiamo intervistato l’autore durante l’anteprima a Biografilm e raccolto le sue interazioni col pubblico in sala.
Qual è stata la spinta che l’ha portata a lavorare a questo film?“Inizialmente non pensavo potesse diventare un film. Ho iniziato a mettere insieme dei cartoncini in cui annotavo piccole catastrofi, per non dimenticarmene. Un giorno li ho messi uno dietro l’altro sul pavimento e mi sono reso conto che potevano essere una storia, ma fino al primo giorno di riprese non credevo potesse diventare un film”.
Un po’ come accade a Mark, il protagonista. Come è riuscito a inserirsi col suo modo di fare cinema in questo mondo produttivo così controllato?
Il film mostra come creo nuove idee da inserire nei miei film e rappresenta un breve frangente della mia vita; durante una post produzione si è presentato un problema mortale che mi ha spinto a uscire dal tracciato di quello che sono io come persona per cercare altre possibilità, ma quello che vedete non è certo lo standard di quando ci si trova su un set.
“Mark si trova in uno stato anormale, non è in sé, anche per me era uno stato di deragliamento in cui ho vissuto sentimenti contrastanti derivanti dai comportamenti miei e di chi mi stava intorno“.
Di che film si trattava?
“Mood Indigo. Io non lavoro così e questo film è pensato per criticare i comportamenti del protagonista, che ahimè sono gli stessi che ho portato avanti io per cinque mesi della mia esistenza. In genere ho un’ottima intesa coi miei collaboratori, le nostre riprese sono molto calme e da quel punto di vista non mi rappresenta”.
Meta-cinema biografico
“Quando un regista mette in scena un film di questo tipo è come l’autoritratto di un pittore, non per narcisismo ma perché trattiamo un tema che conosciamo da molte angolazioni. Come un pittore che non trova la modella giusta da dipingere e si mette allo specchio, questo ci consente di essere molto onesti con noi stessi e possiamo mettere insieme tante incongruenze, analizzandole a ragion veduta”.
Il film è un grande omaggio al fare cinema in cui sembra che Mark scriva questo libro per risolvere problemi, ma che poi sia lui ad appoggiarsi al Cinema. É così anche per lei?
“No. (risate in sala). Penso sia un po’ troppo romantico ed eccessivo pensare che il Cinema possa risolvere i nostri problemi, ma può aiutarci a distrarci o a riflettere sulle nostre vite. In questo film cerco di dipingere gli aspetti meno positivi di questo lavoro, fatta eccezione la forza di portare avanti le proprie idee per vedere se funzionano ed è un mestiere magnifico”.
Racconta anche il rapporto strettissimo tra le figure del regista e della montatrice. Cosa pensa di questa fase della gestazione dell’opera?
“Il montaggio è sempre essenziale, è una delle parti più difficili ed è essenziale che ci sia un buon rapporto tra regista ed editor. In questo film Blanche Gardin ha fatto un lavoro eccellente con l’interpretazione, il suo sguardo trasmette tolleranza e amore verso Mark, nonostante quello che lui le fa passare. Allo stesso modo la montatrice di Mood Indigo mi ha sempre supportato finché poi non ha avuto un po’ di problemi, e ha deciso di lasciarmi in pace, o viceversa”.
Avete usato veramente quel furgoncino per il montaggio?
Il camioncino per il montaggio è finzione! Poter fare cose che non sono esistite nella realtà è una delle cose belle dei film.. Ma una scena che si è svolta in modo quasi identico è quella della creazione della musica per la colonna sonora (Mark mima i suoni a un’orchestra esibendosi in una strana danza, ndr.).
Come siete arrivati a coinvolgere Sting?
“In effetti Sting è nelle mie corde musicali, da adolescente ascoltavo i Police 24 ore su 24 insieme ai miei amici. Quando abbiamo sottoposto a Sting una bozza nella quale ipotizzavamo di replicare il suono del basso utilizzando la voce , l’idea gli è piaciuta subito ed è stato estremamente disponibile”.
Mark guarda in camera come a rivolgersi al pubblico e a dire “Non ci credevate ma ci sono riuscito!”
“In quel momento si rivolge ai suoi colleghi, che erano scettici! Mark è un vulcano di idee; molte di queste non funzionano, altre sì, inaspettatamente, cogliendo di sorpresa tutti”.
Le idee vincenti fanno sì che Mark continui a ricevere la fiducia dei suoi collaboratori. Un po’ come per quelle persone che mentono sempre e poi dicono qualcosa di vero lasciando tutti a bocca aperta.
Per Mark, l’interruzione degli antidepressivi corrisponde a una nuova esplosione creativa.
“Sì, ma il problema è che in questo grande volume di idee alcune sono destinate a funzionare, ma altrettante a fallire e sul lungo termine non è una condizione sostenibile per tutti i coinvolti”
Un momento della vita in cui c’è stata sì un’esplosione di creatività, ma bilanciata da molti altri aspetti negativi.
“É quello che ho vissuto anch’io; come Mark trascorrevo lunghi periodi di depressione a letto, anche questo fa parte del ciclo della malattia. Infine lui riprende le cure, mantenendo la sua creatività ma in modo meno caotico e più costruttivo. Riprendere le medicine consente al cervello di essere più regolato nella sua innata creatività. Nel mio caso, anche se il montaggio (di “Mood Indigo”, ndr.) è stato fatto in questo momento di squilibrio, le riprese erano girate in un momento equilibrato, però non riuscivo a gestire le idee che si manifestavano in modo continuo nella mia mente”.
L’assistente che tossisce moltissimo è l’eroe del film?
“Sì, ma soprattutto è la vittima (ride). Quell’assistente è esistito davvero, tra l’altro e si chiamava Carlos come nel film. Una delle scene che mi ha fatto sentire male quando l’ho rivista è proprio quella nella quale cerca di consolare Mark sotto la pioggia e viene trattato a quel modo.. mi vergogno un po’ di quell’immagine, ma ci tengo a tranquillizzarvi del fatto che in situazioni normali non sono così!”
Ci sono molte mosche in questo film, simboleggiano qualcosa?
“Le mosche non facevano parte del cast, erano già là! É il pubblico a dover decidere se siano una metafora, però tradiscono il fatto che si tratti di finzione; c’è un momento in cui una si posa sulla guancia di Pierre Niney (Mark, ndr.) e lui rimane impassibile, in quanto attore consapevole di dover continuare a recitare la sua parte, mentre nella realtà io l’avrei senz’altro scacciata!”
Alla prima del film sembra tutti lo abbiano apprezzato, tra gli applausi generali. Allora perché in quella scena al posto del regista appare un grosso buco del tipo tana del Bianconiglio e per quale ragione chi gli siede accanto sembra perplesso?
“Perché Mark non è guarito. Tutti pensano che lo sia e che sia in grado di guardare il proprio film, ma non è così. Il film è andato bene, ma Mark non è cambiato. Ho anche strizzato l’occhio a un fumetto di Tex Avery, che ho sempre amato molto, nel quale un cane tenuto prigioniero fugge scavando in pochi secondi un buco sotto la recinzione. Al contempo trovo sia rassicurante per lo spettatore.
A volte quando le persone fuori dagli schemi cambiano il loro modo di essere, si può esserne un po’ malinconici.
Sembra che il film restituisca la sua carriera, con le tecniche in un certo modo artigianali a lei care. Ma recentemente ha dichiarato di voler sperimentare l’uso dell’Intelligenza Artificiale per i suoi film. Che rapporto ha con le tecnologie digitali?
“Le trovo sempre molto costose, se si hanno budget limitati è difficile”.
Posso osservare che molte di queste nuove tecnologie non sono pensate tanto per l’innovazione, ma per imporsi maggiormente sul lavoro di produttori e registi.
Più che utilizzarle per minimizzare i rischi durante la produzione, trovo sia importante mettersi in gioco durante le riprese – questo crea una tensione positiva per il film. (Riguardo le A.I, ndr.) se ne parla da diverso tempo, ma ad oggi non ho progetti in tal senso.
Io non credo che sarà un’entità astratta che dominerà l’umanità, piuttosto permetterà ulteriore controllo da parte di alcuni esseri umani su altri esseri umani – in Cina alcuni datori di lavoro già la utilizzano per prevedere i pensieri e i livelli di concentrazione dei propri dipendenti. Temo che queste tecnologie non siano pensate per il bene dell’umanità, ma per profitto. Sembra che, com’è avvenuto per internet, esploderanno in modo molto veloce e cambieranno la nostra società in modi imprevedibili”
Per molti versi il suo lavoro si attesta sulle minime variazioni, come fu anche in ambito musicale per Ennio Morricone. Cosa può dirci di questo aspetto del processo creativo?
“Ho visto un documentario in cui, all’interno del suo studio di registrazione, teneva le dita più esterne fisse sull’estremità della tastiera e giocava con le dita intermedie sulle altre note per creare la melodia; questa è stata l’idea alla base di una delle sue composizioni più conosciute”.
Di solito si parte da un metodo per verificare se questo meccanismo ha valore, oppure se si parte da un’idea questa si applica e si osserva come si comporta nel tempo.
Il musicista John Cage partiva da una struttura molto rigida organizzata in sottofasi, queste insieme alla struttura più generica andavano a creare la sua musica”.
Indipendentemente dal metodo che si applica, secondo me può funzionare perfettamente anche il contrario, ovvero avere una struttura più aleatoria con sotto-organizzazioni che la fanno venir fuori la creazione.
“Ogni artista lavora a suo modo, ha il proprio metodo, ma quello che li accomuna è che quando hanno una propria idea la portano avanti fino in fondo, senza deviare a metà strada”.
Il regista scherza sulla lunghezza con la quale l’interprete traduce le sue risposte.
“Io amo molto il cinema italiano degli anni ’60 e se si leggono i sottotitoli non c’è modo di guardare contemporaneamente anche le immagini, perché sono lunghissimi!”
Nel congedarsi mima un test al cronometro tra le risate del pubblico in sala: “Buongiorno, mi chiamo Michel Gondry e sono molto felice di essere qui”.
A cura di Tiziana Elena Fresi