Con gli attacchi su Rafah di questi giorni si intensifica l’azione israeliana contro i palestinesi in risposta all’attentato del 7 ottobre scorso compiuto da Hamas.
Ma è proprio da questa città che passano gli aiuti umanitari, ed è a Rafah che si rifugiano oltre 1,5 milioni di palestinesi in fuga. Ma in fuga dove?
Gli attacchi su Rafah
Rafah, città di confine vicina all’Egitto, era considerata l’unica zona “sicura” della Striscia di Gaza. Un territorio di circa sessanta chilometri quadrati nel quale sono rifugiati circa 1,5 milioni di palestinesi in condizioni drammaticamente precarie. Lo stesso premier israeliano Netanyahu aveva invitato i cittadini palestinesi a spostarsi dal centro di Gaza verso Rafah, che sarebbe dovuta servire come punto di scambio degli ostaggi e per l’arrivo degli aiuti umanitari.
Ma l’operazione speciale degli scorsi giorni compiuta su Rafah per la liberazione di due ostaggi israeliani ha causato cento morti. Nell’attacco sono state colpite circa quattordici abitazioni e tre moschee.
Israele, infatti, segue uno schema di tregua in tre fasi che non prevede, però, uno stop alle operazioni di terra. La popolazione civile non sa più dove fuggire, è letteralmente intrappolata nella città senza alcuna via di fuga e le evacuazioni sono molto difficili da gestire.
E soprattutto, dove dovrebbero evacuare i civili palestinesi? Il resto della Striscia di Gaza è distrutto, ogni giorno ci sono bombardamenti e scontri in corso e l’Egitto ha già ribadito più volte di non volere accogliere i civili palestinesi e l’ha ulteriormente dimostrato innalzando le protezioni lungo il confine.
Quale destino, allora, per questo popolo?
Le reazioni internazionali
Le reazioni internazionali agli attacchi su Rafah non si sono fatte attendere: da Biden, che chiede di non agire se non vengono salvaguardati i diritti dei civili palestinesi, a Karim Khan, Procuratore Capo della Corte Penale Internazionale dell’Aja, che esprime la sua profonda preoccupazione e avverte, inoltre, che chiunque violi il diritto internazionale ne dovrà rispondere.
Ma anche il ministro degli Esteri inglese David Cameron ha manifestato la sua preoccupazione attraverso la richiesta di una pausa immediata dei combattimenti per arrivare, così, a una tregua sostenibile senza ripresa delle ostilità.
Anche in Italia il Parlamento ha dato il via libera alla mozione del Pd, Schlein prima firmataria, che impegna il Governo a chiedere “un immediato cessate il fuoco umanitario a Gaza”.
Questo accordo tra la premier Giorgia Meloni e la Schlein segna sicuramente un cambio di passo importante e le parole del ministro Tajani lo confermano: “a questo punto la reazione di Israele è sproporzionata, ci sono troppe vittime che non hanno nulla a che fare con Hamas”.
Inoltre è di due giorni fa il divieto di ingresso in Israele imposto da Netanyahu all’inviata speciale delle Nazioni Unite per i Territori Palestinesi Francesca Albanese, che sulla piattaforma X aveva affermato che il massacro compiuto da Hamas il 7 ottobre è conseguenza “dell’oppressione israeliana sui palestinesi”.
Dal 7 ottobre ad oggi sono circa 28.000 i morti palestinesi accertati a Gaza, il 70% costituito da donne e bambini; il 60% degli edifici è distrutto e circa l’85% della popolazione non ha più una casa.
Qual è, quindi, la soluzione a lungo termine per il popolo palestinese secondo il governo israeliano?
Hate speech antipalestinese
Gli attacchi nei confronti dei cittadini palestinesi, però, non iniziano dopo il 7 ottobre 2023. Oggi si discute molto del rischio di un rigurgito pericoloso di antisemitismo ma non si è mai discusso, nel corso di questi anni, dell’odio, della persecuzione e dell’oppressione subita dal popolo palestinese.
Attraverso un’indagine pubblicata nel mese di settembre 2022 e condotta da una società di consulenza esterna, la Business for Social Responsibility, un’organizzazione no-profit globale che lavora con una rete di oltre 250 aziende associate e altri partner, è dimostrato ad esempio che gli algoritmi di Facebook danneggiano i diritti dei cittadini palestinesi.
La destra israeliana, infatti, promuove discorsi d’odio sui social network contro il popolo palestinese e le piattaforme tollerano questo tipo di esternazioni.
Le politiche delle piattaforme, infatti, sono applicate in modo arbitrario, attraverso la censura delle voci dei palestinesi e la successiva sospensione di account di molti giornalisti, l’eliminazione arbitraria di contenuti che documentano le violenze perpetrate dall’esercito e dalle forze dell’ordine israeliane (i funzionari israeliani esercitano forti pressioni sulle piattaforme per la rimozione di questo genere di contenuti).
I bombardamenti israeliani sui territori palestinesi nel 2021
La revisione condotta dalla Business for Social Responsibility, inoltre, afferma che le azioni di Meta, durante i bombardamenti israeliani nel maggio del 2021 sulla Striscia di Gaza, hanno avuto un impatto negativo sui diritti umani, sui “diritti degli utenti palestinesi alla libertà di espressione, riunione, partecipazione politica e non discriminazione”.
Durante i bombardamenti israeliani sui territori palestinesi del 2021 hanno perso la vita 256 persone, inclusi 66 bambini.
Per di più, il software di rilevamento dei contenuti d’odio è implementato per i post condivisi in lingua araba ma non per quelli in lingua ebraica; ancora una volta, quindi, i meccanismi dei social (comunicazione globale) incidono pesantemente sulla vita e sui diritti dei cittadini attraverso un’ingiustificata disparità di trattamento.
Siamo ormai consapevoli di quanto il mondo virtuale incida sulla vita reale. Possiamo pensare che anche queste condotte abbiano contribuito, in modo costante e graduale, ad incrementare un clima di tensione crescente.
Per approfondire il tema dell’hate speech clicca qui: I discorsi d’odio online e il pericoloso legame con la politica
Elena Elisa Campanella