(Adnkronos) – L’Unione Europea ha passato il “crocevia” degli aiuti ‘civili’ all’Ucraina rimanendo sul percorso della lenta trasformazione in un soggetto geopolitico. L’accordo a 27 raggiunto nel Consiglio Europeo sull’assistenza macrofinanziaria per quattro anni, per 50 miliardi di euro (33 di prestiti e 17 di trasferimenti), segna un altro passo decisivo nella progressiva evoluzione dell’Unione, dopo l’ok, arrivato nello scorso dicembre, all’avvio dei negoziati di adesione con Kiev. Per Zsuzsanna Vegh dello European Council on Foreign Relations, gli aiuti costituiscono “una rete di sicurezza davvero importante per l’Ucraina”. “Il messaggio è chiaro – ha detto il presidente francese Emmanuel Macron, uno dei politici europei storicamente più disponibili a dialogare con il Cremlino – la Russia non può contare su qualsivoglia 'affaticamento' degli europei nel loro sostegno all'Ucraina”. Anche il premier belga Alexander De Croo, un liberale fiammingo, ha osservato che i progressi fatti dall’Europa non vanno “sottovalutati”, perché è la seconda volta che, malgrado le previsioni “catastrofiche” della vigilia (frutto anche dei leak volti a mettere pressione su Viktor Orban), un accordo a 27 viene trovato rapidamente. Ha aiutato, come ha sottolineato Macron, mettere “qualche settimana” in mezzo alle due decisioni, in modo da riuscire a ‘recuperare’ Orban. In questo caso, il premier ungherese, che pure è il leader con la maggiore anzianità di servizio nel Consiglio Europeo e sa gestire abilmente l’arma del veto (consentendo così al suo Paese di ‘punch above its weight’, come dicono gli inglesi, di contare in misura maggiore rispetto alle proprie dimensioni), ha scelto la ritirata. Ha ottenuto un paio di punti nelle conclusioni, che però non gli conferiscono alcun diritto di veto sugli aiuti all’Ucraina. Per dirla con Macron, l’Ungheria ha ottenuto l’assicurazione di essere trattata “con equità”, secondo “le regole” che valgono per tutti per l’assegnazione dei fondi Ue (20 mld sono ancora bloccati, anche per il meccanismo sulla tutela del bilancio Ue dalle violazioni dello Stato di diritto).
Decisiva è stata l’unità degli altri 26: nemmeno i leader più in grado di comprenderne la mentalità, come Robert Fico e Giorgia Meloni, lo hanno appoggiato. Anzi, è stata messa esplicitamente sul tavolo l’arma ‘nucleare’, l’articolo 7 che sospende i diritti di voto in Consiglio, in piedi dal 2018 ma mai decollato, per via della Polonia che con il Pis spalleggiava Budapest, trovandosi anch’essa ai ferri corti con la Commissione. Se Orban avesse mantenuto il veto, anche governi attenti ai diritti delle nazioni , forse, avrebbero valutato un sì. E ’Ungheria non può più contare sulla sponda di Varsavia, dove ormai il Pis è all’opposizione. Se qualcuno aveva ancora dei dubbi, sono stati cancellati dalle parole del premier polacco Donald Tusk, il più duro nei confronti di Orban, le cui posizioni, ha scandito, rappresentano una “minaccia per la sicurezza” dell’Ue. Tra i 26 Giorgia Meloni, conferma una fonte diplomatica europea, “ha svolto un ruolo” particolare nel convincere Orban a fare marcia indietro. “In ultima analisi – dice – è stato il fronte unito dei 26 leader, indisponibili a muoversi di un centimetro, che ha costretto” il leader ungherese a “cedere”, ma “di certo Meloni è stata molto costruttiva e d’aiuto in mezzo a questo processo”, spiega la fonte. Insomma, Meloni oggi gioca a pieno titolo al gioco europeo, come è ormai evidente dall’elevato numero di visite in Italia della presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, la quale ha bisogno dei voti dell’Ecr se vuole essere sicura di passare a metà luglio nel Parlamento Europeo (posto che si ricandidi, come sembra probabile). Nel 2019 von der Leyen passò con uno scarto di soli nove voti: se i Cinquestelle, allora in 14, non l’avessero votata, non sarebbe stata eletta. Quel voto, tra l’altro, segnò l’inizio della fine del Conte uno, mettendo in moto la valanga che portò al Papeete e alla nascita del Conte due. Matteo Salvini, leader della Lega e vicepresidente del Consiglio, ha messo in chiaro, mercoledì a Bruxelles, che lui “personalmente” non voterebbe per von der Leyen, la cui Commissione giudica “disastrosa”. Se a luglio la Lega votasse, eventualmente, contro von der Leyen, si porrebbe un problema politico per il governo. Ma una fonte qualificata ricorda all’Adnkronos che mancano ancora mesi alle europee e che non è neppure sicuro che von der Leyen sia la candidata che sarà in Aula a Strasburgo a metà luglio. Salvini fa “campagna elettorale”, puntando su un settore della destra diversa da quello cui mira Fratelli d’Italia, che ormai occupa, almeno elettoralmente, anche parte del centro. E, anche se il centrodestra si spaccasse a Strasburgo, con la Lega da una parte e Fdi e Fi dall’altra, la coalizione non è quella eterogenea che sosteneva il Conte uno: il centrodestra, dal 1994 in poi, ha (quasi) “sempre trovato un punto di caduta”, osserva un’altra fonte. Tornando all’Ucraina, il Paese di gran lunga più importante dello spazio postsovietico rimasto fuori dall’Ue, il significato geopolitico della decisione di ieri non va ingigantito: 50 mld di euro in quattro anni sono appena lo 0,08% del Pil cumulato previsto dell’Ue in quel periodo di tempo, come ha calcolato l’Economist. Non esattamente uno sforzo titanico. Tuttavia, grazie a quei soldi lo Stato ucraino potrà continuare a pagare stipendi e pensioni, evitando il fallimento. Restano grossi problemi sul piano del sostegno militare, un altro capitolo rispetto all’assistenza macrofinanziaria, tanto che Ursula von der Leyen ha dovuto ammettere che entro fine marzo l’Ue avrà consegnato all’Ucraina “520mila” munizioni da artiglieria, poco più della metà del milione che era stato promesso nella primavera scorsa. Macron, che ha un passato da banchiere d’affari (qualsiasi manager sa che gli obiettivi che si comunicano al mercato devono essere ragionevolmente raggiungibili, non una sfida ai limiti dell’impossibile), ha rimarcato che “non è normale” che l’Ue annunci un obiettivo e poi non lo rispetti. Tanto più che l’obiettivo è stato mancato non tanto per deficienze di capacità produttiva, quanto perché gran parte della produzione di quelle munizioni viene esportata in altri Paesi, anziché essere dirottata verso Kiev. Rimangono quindi molte cose da mettere a posto, come è logico per un progetto, l’Ue, nato come progetto di pace, per impedire agli europei di continuare a massacrarsi, come avevano fatto nelle due precedenti guerre mondiali. Ora questo progetto si sta lentamente trasformando in qualcosa di diverso, sotto la pressione della storia, che si è rimessa in moto dopo la fine della Guerra Fredda. Il messaggio forse più importante mandato dal via libera di ieri è diretto agli Stati Uniti d’America, che da molti anni, sotto Amministrazioni di ogni colore, chiedono all’Europa di aumentare il proprio contributo alla difesa del Vecchio Continente, il ‘burden sharing’. Non a caso il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha sottolineato, in conferenza stampa, che la decisione del Consiglio Europeo avrebbe fatto piacere a Washington. E non è neanche un caso, probabilmente, che il Congresso Usa abbia tenuto fermi gli aiuti all’Ucraina fino adesso, al di là dei motivi di politica interna. Per la classe dirigente Usa sta diventando sempre più complicato giustificare davanti ai propri elettori i costi che Washington sostiene per assicurare la difesa dell’Europa. L’Ue sembra avere recepito e si è mossa per prima, sia pure con una certa fatica, non essendo uno Stato nazionale ma un’Unione a 27 teste. La tutela della sicurezza europea, davanti al rinato imperialismo russo, richiede un impegno in prima persona dei Paesi europei, con i relativi oneri. Ieri l’Ue ha segnalato di essere pronta a sostenerli. —internazionale/[email protected] (Web Info)
Decisiva è stata l’unità degli altri 26: nemmeno i leader più in grado di comprenderne la mentalità, come Robert Fico e Giorgia Meloni, lo hanno appoggiato. Anzi, è stata messa esplicitamente sul tavolo l’arma ‘nucleare’, l’articolo 7 che sospende i diritti di voto in Consiglio, in piedi dal 2018 ma mai decollato, per via della Polonia che con il Pis spalleggiava Budapest, trovandosi anch’essa ai ferri corti con la Commissione. Se Orban avesse mantenuto il veto, anche governi attenti ai diritti delle nazioni , forse, avrebbero valutato un sì. E ’Ungheria non può più contare sulla sponda di Varsavia, dove ormai il Pis è all’opposizione. Se qualcuno aveva ancora dei dubbi, sono stati cancellati dalle parole del premier polacco Donald Tusk, il più duro nei confronti di Orban, le cui posizioni, ha scandito, rappresentano una “minaccia per la sicurezza” dell’Ue. Tra i 26 Giorgia Meloni, conferma una fonte diplomatica europea, “ha svolto un ruolo” particolare nel convincere Orban a fare marcia indietro. “In ultima analisi – dice – è stato il fronte unito dei 26 leader, indisponibili a muoversi di un centimetro, che ha costretto” il leader ungherese a “cedere”, ma “di certo Meloni è stata molto costruttiva e d’aiuto in mezzo a questo processo”, spiega la fonte. Insomma, Meloni oggi gioca a pieno titolo al gioco europeo, come è ormai evidente dall’elevato numero di visite in Italia della presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, la quale ha bisogno dei voti dell’Ecr se vuole essere sicura di passare a metà luglio nel Parlamento Europeo (posto che si ricandidi, come sembra probabile). Nel 2019 von der Leyen passò con uno scarto di soli nove voti: se i Cinquestelle, allora in 14, non l’avessero votata, non sarebbe stata eletta. Quel voto, tra l’altro, segnò l’inizio della fine del Conte uno, mettendo in moto la valanga che portò al Papeete e alla nascita del Conte due. Matteo Salvini, leader della Lega e vicepresidente del Consiglio, ha messo in chiaro, mercoledì a Bruxelles, che lui “personalmente” non voterebbe per von der Leyen, la cui Commissione giudica “disastrosa”. Se a luglio la Lega votasse, eventualmente, contro von der Leyen, si porrebbe un problema politico per il governo. Ma una fonte qualificata ricorda all’Adnkronos che mancano ancora mesi alle europee e che non è neppure sicuro che von der Leyen sia la candidata che sarà in Aula a Strasburgo a metà luglio. Salvini fa “campagna elettorale”, puntando su un settore della destra diversa da quello cui mira Fratelli d’Italia, che ormai occupa, almeno elettoralmente, anche parte del centro. E, anche se il centrodestra si spaccasse a Strasburgo, con la Lega da una parte e Fdi e Fi dall’altra, la coalizione non è quella eterogenea che sosteneva il Conte uno: il centrodestra, dal 1994 in poi, ha (quasi) “sempre trovato un punto di caduta”, osserva un’altra fonte. Tornando all’Ucraina, il Paese di gran lunga più importante dello spazio postsovietico rimasto fuori dall’Ue, il significato geopolitico della decisione di ieri non va ingigantito: 50 mld di euro in quattro anni sono appena lo 0,08% del Pil cumulato previsto dell’Ue in quel periodo di tempo, come ha calcolato l’Economist. Non esattamente uno sforzo titanico. Tuttavia, grazie a quei soldi lo Stato ucraino potrà continuare a pagare stipendi e pensioni, evitando il fallimento. Restano grossi problemi sul piano del sostegno militare, un altro capitolo rispetto all’assistenza macrofinanziaria, tanto che Ursula von der Leyen ha dovuto ammettere che entro fine marzo l’Ue avrà consegnato all’Ucraina “520mila” munizioni da artiglieria, poco più della metà del milione che era stato promesso nella primavera scorsa. Macron, che ha un passato da banchiere d’affari (qualsiasi manager sa che gli obiettivi che si comunicano al mercato devono essere ragionevolmente raggiungibili, non una sfida ai limiti dell’impossibile), ha rimarcato che “non è normale” che l’Ue annunci un obiettivo e poi non lo rispetti. Tanto più che l’obiettivo è stato mancato non tanto per deficienze di capacità produttiva, quanto perché gran parte della produzione di quelle munizioni viene esportata in altri Paesi, anziché essere dirottata verso Kiev. Rimangono quindi molte cose da mettere a posto, come è logico per un progetto, l’Ue, nato come progetto di pace, per impedire agli europei di continuare a massacrarsi, come avevano fatto nelle due precedenti guerre mondiali. Ora questo progetto si sta lentamente trasformando in qualcosa di diverso, sotto la pressione della storia, che si è rimessa in moto dopo la fine della Guerra Fredda. Il messaggio forse più importante mandato dal via libera di ieri è diretto agli Stati Uniti d’America, che da molti anni, sotto Amministrazioni di ogni colore, chiedono all’Europa di aumentare il proprio contributo alla difesa del Vecchio Continente, il ‘burden sharing’. Non a caso il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha sottolineato, in conferenza stampa, che la decisione del Consiglio Europeo avrebbe fatto piacere a Washington. E non è neanche un caso, probabilmente, che il Congresso Usa abbia tenuto fermi gli aiuti all’Ucraina fino adesso, al di là dei motivi di politica interna. Per la classe dirigente Usa sta diventando sempre più complicato giustificare davanti ai propri elettori i costi che Washington sostiene per assicurare la difesa dell’Europa. L’Ue sembra avere recepito e si è mossa per prima, sia pure con una certa fatica, non essendo uno Stato nazionale ma un’Unione a 27 teste. La tutela della sicurezza europea, davanti al rinato imperialismo russo, richiede un impegno in prima persona dei Paesi europei, con i relativi oneri. Ieri l’Ue ha segnalato di essere pronta a sostenerli. —internazionale/[email protected] (Web Info)