9 aprile 1969: rivolta di Battipaglia
Nell’Aprile del 1969 a Battipaglia giunge la notizia dell’imminente chiusura di due grosse aziende della città. Tratto da Lotte Operaie bollettino sind. di RIVOLUZIONE COMUNISTA anno 2° n. 12-13 Aprile-Maggio 1969
Dopo Avola, Battipaglia. La catena sanguinosa di eccidi polizieschi contro gente inerme, che chiede lavoro, si allunga. Nel piccolo centro siciliano ai braccianti agricoli, che rivendicavano condizioni di lavoro più dignitose, si rispondeva col piombo. Nel folto centro campano agli operai e agli altri cittadini, che manifestavano contro la disoccupazione e la decadenza economica locale, si è risposto col fuoco delle armi e con lo stato d’assedio.Ma, a Battipaglia, gli avvenimenti hanno preso una piega “inaspettata”, furiosa, terrificante. La massa della popolazione ha reagito alle cariche della polizia; si è rivoltata contro la stessa; ha ingaggiato una battaglia accanita, furibonda, che, al posto dei 2 morti e 200 feriti circa, avrebbe potuto avere un bilancio luttuoso di proporzioni enormi; ha dato alle fiamme municipio e questura; ha eretto qua e là qualche rudimentale barricata.
Gli avvenimenti di Battipaglia hanno destato immediatamente una viva e profonda impressione in tutte le classi del popolo, Mentre le forze della borghesia si sono subito date da fare per circoscrivere l’incendio; dalle masse sfruttate italiane si è levato un grido profondo di protesta. Dovunque gli operai sono scesi in sciopero di solidarietà, dando luogo a vivaci ed energiche manifestazioni, nonostante l’opera pacificatrice svolta dai burocrati sindacali.
Dobbiamo subito chiederci: quale significato politico ha questa rivolta proletaria? Questa esplosione significa che esiste un accumulo di sostanze infiammabili, il quale divampa, esteriormente in modo improvviso, ma che testimonia proprio in questo modo l’esistenza di
un grave disagio sociale, nascente da cause economiche profonde. È secondario che essa prenda vita da episodi sindacali apparentemente pacifici. Quello che è decisivo è ciò che essa rivela.
Il 9 aprile [1969] le tabacchine dell’ATI sono alla testa di un corteo, organizzato da un comitato cittadino composto di democristiani, socialisti e comunisti. Tutto è calmo e sembra rientrare nella normalità. Ma il corteo presto si ingrossa e appena la Polizia accenna alle prime cariche, incominciano gli scontri. Gli scontri diventano ben presto battaglia furiosa, per trasformarsi infine in una rivolta di massa.
Per la stampa “benpensante” sembrerebbe che a Battipaglia abbia agito la coda del diavolo o l’imprevidenza della politica governativa. Per alcuni si tratterebbe o di un’esplosione “paesana” (Il Sole-24 Ore) o di una rivolta contadina preparata da turbolente e misteriose forze sovversive (Corriere della Sera). Per altri si tratterebbe o delle distorsioni dello sviluppo economico nel Sud (Avanti!); o di un’espressione della miseria del Sud dovuta agli errori del governo che perpetua una situazione borbonica (Unità). Per qualche altro, infine, dietro la rivolta di Battipaglia ci sarebbe “tutto il Mezzogiorno contadino in movimento” (Rossi Doria). Parrebbe dunque che gli avvenimenti di Battipaglia siano frutto di cause accidentali, non ripetibili; o, comunque, prevenibili.
Poiché altre Battipaglia possono, quanto prima, spuntare in altre zone, alle porte di Milano o di Torino; dobbiamo esaminare da che cosa ciò possa dipendere; dobbiamo cioè analizzare le radici economiche di questa “esplosione”.
La fase di “ristrutturazione economica” succeduta al periodo del “miracolo”, come non poteva attenuare gli squilibri economici dovuti all’ineguale sviluppo capitalistico, li ha perpetuati e accentuati. L’ineguale sviluppo caratterizza, indistintamente, tutte le regioni , si trovino al Nord o al Sud e non “taglia in due” una nazione, come immaginano certi professori. I capitali accorrono dove maggiore è il profitto o le occasioni per realizzarlo. Oggi queste condizioni sono maggiormente presenti nell’area Torino-Milano e quindi i capitali si concentrano in queste zone. Perfino Genova, che fino a poco tempo fa costituiva uno dei vertici del cosiddetto triangolo industriale, subisce già un processo di smobilitazione industriale che ha come prospettiva la disoccupazione crescente.
Zone, ove un tempo operavano numerose fabbriche, per esempio: Novara, Vercelli; sono in procinto di diventare terre “depresse”. Gli operai triestini soffrono da svariati anni le conseguenze penose della “ristrutturazione programmata”, attuata dal governo. Il Sud può, quindi, stare alle porte di Milano o di Torino, perché le cause economiche che operano nel Sud sono le stesse che agiscono nel Nord.
Fino a pochi anni fa Battipaglia è stata un centro urbano economicamente florido. Le industrie locali attiravano manodopera dagli altri centri viciniori, specialmente dal Cilento, ove i contadini lasciavano la terra per inurbarsi. Ma i cambiamenti intervenuti nel flusso degli affari e le nuove esigenze concorrenziali, sviluppatesi per i monopoli alimentari dal mercato europeo, hanno avviato la cittadina, nel giro di pochi anni, verso la decadenza economica e la miseria.
È indispensabile, se si vuole dare un giudizio corretto su quanto à avvenuto a Battipaglia, considerare le caratteristiche economiche di questo paese e le condizioni sociali dei lavoratori. L’economia di Battipaglia è tipica non di una zona arretrata, ma di una zona ove si è verificato un rapido e poderoso progresso economico.
Battipaglia si trova al centro della Piana del Sele. Pur facendo parte della Campania, sorgente ricca di forza-lavoro emigrante, ha visto aumentare in 46 anni la propria popolazione di 8 volte. Questa infatti contava: nel 1921 4.000 abitanti; nel dopoguerra 10.000 abitanti; nel 1951 16.000 abitanti; nel 1961 25.992 abitanti; nel 1967 32.038 abitanti.
L’economia ha avuto basi solide. Oltre alla presenza di una forte industria di trasformazione dei prodotti agricoli, ora tutta in via di riassestamento; e a un vasto commercio, favorito dall’esistenza di un importante nodo ferroviario; il centro campano possiede un’agricoltura intensiva, di elevato potenziale produttivo.
La struttura delle campagne, infatti è ad alto grado di sviluppo capitalistico. La Piana del Sele ha 33.763 ettari di terreno coltivato. Di questi, 30.000 ettari sono irrigati e presentano un coefficiente elevato di meccanizzazione. Anche il tipo di colture dimostra la “modernità” dell’agricoltura della Piana (pomodoro, tabacco sub-tropicale, zucchero). L’allevamento del bestiame vi figura con oltre 13.000 bovini da latte.
Metà dei 33.763 ettari, precisamente 15.568, sono condotti da grandi aziende agricole. Su 9.819 ettari vi sono installate soltanto 43 aziende, con una superficie media individuale di più di 100 ettari, Nel solo comune di Battipaglia 57 aziende possiedono più di metà del terreno coltivabile, ossia 2.756 su 5.242 ettari.
La concentrazione economica risulta più marcata ancora se si tiene conto dell’andamento della popolazione occupata in agricoltura. Le braccia attive occupate nelle campagne sono diminuite vertiginosamente. Nel 1951 esse costituivano il 31% della popolazione attiva totale. Nel 1961 scendevano al 15%. Nel 1967 toccano il limite del 10%, quasi metà della media nazionale.
Se consideriamo ora le condizioni di vita delle masse lavoratrici constatiamo che, con il progresso della concentrazione economica e produttiva, è aumentato a Battipaglia il proletariato; e sono, al contempo, aumentate l’incertezza e la precarietà delle sue condizioni di vita.
I braccianti e giornalieri agricoli ricevono salari molto bassi. Ma non è questo il male maggiore. Ciò che è più grave è che questi lavoratori si trovano costantemente sull’orlo della disoccupazione. E disoccupazione, qui, significa mancanza totale di sussistenze, non essendo possibile trovare occupazioni ausiliarie. A Battipaglia il mercato del lavoro è sovraccarico. Nel 1961 gli occupati ammontavano a 10.245 ossia al 40% della popolazione, oggi ammontano a 6.705, ossia al 21% della popolazione.
Alle difficoltà crescenti di occupazione in agricoltura si accompagnano i licenziamenti nell’industria. Negli ultimi 3 anni 64 fabbriche su 170 hanno chiuso i battenti. Ultimamente quattro conservifici (Baratta, D’Agosto, D’Amato, Gambardella) hanno gettato sul lastrico 2.000 dipendenti. Anche gli zuccherifici del monopolio Eridania si avviano a chiudere i battenti, sia per limitare la produzione in base agli “accordi agricoli comunitari”, sia perché attratti altrove da occasioni più vantaggiose.
Dal canto loro i tabacchifici statali (ATI) intendono lavorare, per ridurre i costi, non più tabacco sub-tropicale, ma tabacco Burley; il quale consentirebbe un dimezzamento dei tempi di lavorazione e quindi la riduzione a metà delle lavoratrici impiegate. Pertanto delle 1.200 operaie oggi occupate nelle due aziende in funzione solamente 600 potrebbero trovare lavoro; e per giunta soltanto per 4 mesi al posto degli 8 mesi attuali.
La situazione della classe operaia è, dunque, semplicemente disperata.
D’altro lato, non meno desolante è la situazione di una parte degli strati intermedi della popolazione.
I contadini, piccoli coltivatori, schiacciati dalle grosse aziende sono costretti a cedere ai grandi complessi alimentari (Cirio, De Rica, Star) i loro prodotti a prezzi irrisori. E, quel che è peggio, si vedono anche trascinati, con la smobilitazione dell’industria di trasformazione, nella rovina economica.
Il commercio, sulla scia del poderoso sviluppo economico, è stato prospero. Il piccolo commercio, fidando nell’ininterrotto aumento dell’occupazione si credeva destinato ad un grande avvenire. Ma con il concentramento industriale e l’incessante calo della manodopera occupata la crisi lo ha investito in pieno, rovinando bottegai e commercianti. Negli ultimi 3 anni i protesti cambiari si sono triplicati; mentre sono raddoppiate le istanze di fallimento.
I rivenditori indebitati sono alla mercè del capitale finanziario. Quegli stessi complessi monopolistici che nell’agricoltura dominano il contadino (dai colossi alimentari dipendono non solo le cooperative agricole, ma assegnatari, piccoli e medi coltivatori, in quanto a essi sono obbligati a vendere il proprio prodotto), si impadroniscono del piccolo commercio, avviando nel campo della distribuzione un processo di concentrazione, le cui grandi catene di distribuzione decretano la loro rovina definitiva.
In questo contesto appaiono fin troppo evidenti le ragioni economico-sociali della rivolta, la profonda “razionalità” di questa rivolta. Essa era, non solo inevitabile e profondamente legittima, perché si basa sul diritto dello sfruttato ad insorgere contro il proprio sfruttatore, ma “niente” poteva inoltre arrestarla. Al punto in cui erano giunte le cose doveva travolgere, come ha travolto, gli argini tradizionali: partiti conformisti (o democratici che dir si voglia), e dirigenti sindacali.
Certamente ci vuole tutta la fantasia di un genio poliziesco per andare a scovare “incendiari” e “sovversivi” a ogni angolo di strada. L’azione di “commandos sovversivi” a Battipaglia è una creatura esclusiva della mentalità criminale degli ideologi della borghesia.
Sono state le operaie del tabacchificio ATI a dirigersi verso la stazione ferroviaria e a scavalcare, con ciò, il piano della manifestazione preparato dagli organizzatori politici e sindacali, che sono gente corrotta e compromessa. Non bisogna dimenticare che, a Battipaglia, la CISL (sindacato maggioritario) è un’agenzia elettorale della democrazia cristiana e che gli altri due sindacati trattano gli operai paternalisticamente. È stata la folla, giustamente nauseata da anni di chiacchiere e di frottole, che, inferocita, ha interrotto il giorno 10 il comizio unitario indetto da PSI, DC, PLI, PCI, PUIUP, sindacati; incendiando il palco degli oratori. I fatti parlano chiaro: le parole non riescono più ad incantare, ci vogliono gli atti. E la .ragione di ciò è che i tempi sono mutati o stanno per mutare.
Non ci sono affatto due Italie, come crede di sofisticare, al momento, qualche furbacchione cerimoniere della grandezza nazionale. Esiste una sola Italia: quella del libero sfruttamento capitalistico della forza-lavoro. La rivolta di Battipaglia non è effetto di un passato lontano. È l’espressione politico-sociale del più recente sviluppo economico italiano – in questo senso anche europeo -, fatto sulla pelle degli operai e la proletarizzazione degli strati intermedi; della crescente gravità delle contraddizioni inevitabili di questo sviluppo. Battipaglia è un “Sud” profondamente “Nord”. Perciò possiamo considerarla come l’immagine (ancora primitiva e grossolana) del futuro politico italiano.
Sovente i fatti precorrono la coscienza. E a Battipaglia la rivolta è stata istintiva. Questa caratteristica dell'”esplosione” è stata ad un tempo causa ed effetto dell’effimera unità stabilitasi tra proletari e ceti intermedi. Commercianti, medi coltivatori e professionisti hanno preso parte alla manifestazione. Inoltre elementi piccolo-borghesi si sono mescolati agli operai, tentando di imprimere alle azioni di piazza un carattere populistico.
A rivelare i limiti di quest’unità effimera ci sono due episodi significativi. Il primo consiste nel fatto che le armi, abbandonate dalla polizia in fuga, vengono accuratamente raccolte dai manifestanti per essere subito dopo consegnate ai vigili. Il secondo risiede nella circostanza che il giorno 10 ai carabinieri, che accorrono per prendere il posto della polizia, viene fatto persino qualche applauso. Questi due episodi non denotano un basso livello di coscienza di classe negli operai. Dimostrano piuttosto che la piccola-borghesia è sempre pronta ad accettare nuovamente l’autorità statale, da essa contestata, appena quella lascia intendere che avrà riguardo per i suoi interessi.
È un aspetto, questo, della rivolta di Battipaglia che meriterebbe un’analisi approfondita. Lo poniamo all’attenzione dei simpatizzanti e degli operai affinché considerino attentamente gli umori instabili della piccola borghesia; il suo oscillare tra la furia devastatrice e il ruffianesimo reazionario.