Scritture in versi per interrogarsi sulle contraddizioni del presente e sulla condizione umana: s’intitola “Blu è il colore del mondo” la nuova raccolta di poesie di Giuseppe Boy, edita da Ensemble del 2024, che sarà presentata giovedì 24 ottobre alle 18 nel Foyer del Teatro Massimo di Cagliari nell’incontro con l’autore, affermato attore e regista teatrale, che alterna spettacoli e readings alle apparizioni sul grande e sul piccolo schermo, in dialogo con Martina Marogiu, sotto le insegne di Legger_ezza 2024 / Promozione della Lettura – VI edizione a cura del CeDAC Sardegna in collaborazione con la Libreria Edumondo.
“Blu è il colore del mondo” è la nuova silloge – dopo “Autoritratto di un uomo palloso” (2010), “Ho ancora tutta la vita da rimettere a posto” (2012) e “Sisifo Invecchiato” (2015) – che riflette pensieri, stati d’animo e emozioni, dilemmi esistenziali e considerazioni sull’attualità dell’attore e poeta, trasfigurati attraverso la forza evocativa delle rime: in quattro capitoli, in cui si indaga il rapporto tra la dimensione individuale dell’“Io” e quella collettiva e plurale di un “Voi” e un “Noi”, in un dialogo a distanza con artisti come Pier Paolo Pasolini e Vincenzo Cardarelli, per immergersi infine nelle molteplici sfumature, reali e simboliche, del “Blu”.
In epigrafe, dopo le citazioni ” a tema” del cosmonauta Yuri Gagarin, «Vista da quassù la Terra è blu, è meravigliosa, senza frontiere» e del cantautore Eric Charden, «Le monde est gris le monde est bleu / Et la tristesse brûle mes yeux», cinque versi in cui è racchiuso il significato del libro, dove alla bellezza della natura si contrappongono, come note stonate, la crudeltà e l’insensatezza della guerra e le ingiustizie della società, insieme alla deriva pericolosa dell’indifferenza, o forse della rassegnazione: «Blu è il colore del mondo / Blu, come quello del cielo e come quello del mare / Blu, come l’anima dei blues / Il blu del dolore del mondo / Il blu della sua gioia».
La cornice di una narrazione in versi, nelle tonalità struggenti ma anche rabbiose di un blues metropolitano, nello stile di una sceneggiatura cinematografica (all’inizio e alla fine del libro), mostra l’azzurro del cielo, inquadrato nella finestra di un palazzo nel cuore di Cagliari, da cui si intravedono i quartieri della città per poi giungere all’atmosfera intimistica di una stanza dove il poeta, come un moderno cantastorie, accompagnandosi con la sua chitarra, intona le sue ballate.
Un invito a immergersi in quel blu, riflesso del cielo e del mare ma anche di una profonda malinconia, in cui riaffiora il dolore degli schiavi d’America e la nostalgia della libertà: “Blu è il colore del mondo” rappresenta anche una sorta di diario in pubblico, in cui l’autore si interroga sul senso della vita e sul ruolo dell’uomo di fronte all’immensità del cosmo, nell’eterno dilemma dell’«essere e non essere», nello stesso momento, «dietro ogni finestra» e «davanti ad ogni disastro». Il potere catartico della bellezza, la possibilità di godere dell’armonia del mondo a fronte della lucida consapevolezza, dell’uomo e dell’artista, di ciò che avviene altrove: nell’indagine sull”Io”, si ritrovano il tempo sospeso dell’attesa e la quiete apparente, la stanchezza dopo tutte le lotte e gli entusiasmi, e la consolazione della poesia: «Il resoconto di un attimo,/ nient’altro. / Il desiderio di poesia / è solo questo. / Solo la traduzione in parole / di un pensiero impellente,/ carico di tensione / verso l’esterno. / Solo uno stato momentaneo / dell’anima / che sbadatamente / a volte confondo con l’assoluto,/ nel bene e nel male».
La ricerca interiore e la solitudine del poeta, distante eppure in qualche modo coinvolto, che ragiona «di quella complicata / contraddittoria e disperata / a volte indifferente / troppo spesso invisibile // umanità che mi circonda / che ci circonda / che vi circonda…» lasciano il posto a una conversazione con quegli altri simili e dissimili, che formano la folla dei “Voi”: coloro che «Fin dai tempi in cui / abbiamo steso al sole / le nostre bandiere arcobaleno, / noi abbiamo solo immaginato / voi, inondati di paura, / con tutti i sensi tesi,/ verso il buio ed il silenzio». Un’alterità e un’estraneità a dispetto della comune appartenenza alla stessa umanità, le differenze, dettate dalle circostanze e dal caso, tra chi vive al sicuro e chi sperimenta quotidianamente la distruzione e la ferocia di un conflitto: «Voi lo sapete / cosa sia pensare con terrore / all’assoluto nulla immanente, / dopo i sibili dei missili, / dopo i boati delle esplosioni. /Voi sapete cosa sia / il fragore della casa che crolla, / lo scricchiolio delle ossa che si spezzano, / l’odore della carne che brucia, / il silenzio della pace eterna».
La poesia si trasforma in canto, e dà forma all’indicibile: «Si contano ogni giorno / con dolore i morti / specie se sono bambini. / Si contano le vite spezzate / dalla furia cieca della vendetta. / – Ah! Che brutta parola, vendetta! – / Si piangono giustamente i morti». Un lamento funebre per rompere il muro dell’indifferenza, quel silenzio assordante che separa le vittime dirette e indirette delle guerre dai testimoni, muti e impotenti, disarmati e inascoltati, che aspirano alla pace, con uno sguardo a un ipotetico futuro, quando sarà necessario ricostruire su quelle macerie e ricordarsi e prendersi cura dei sopravvissuti. E lo spirito blues prende il sopravvento in «Io non sono bianco. / Io sono negro, sono negro chiaro. / Ho la testa dura, io. / Una testa che non ha paura / di sbattere contro i muri. / Una testa così dura / da attraversarli, i muri / anche quelli più duri / anche quelli più infidi…» in cui arde il “sangue ribelle” dei vinti e «ribolle lo stesso dolore degli antenati».
Il martirio di Cristo, il suo messaggio rivoluzionario oltre le leggi e le consuetudini, e il dramma dei migranti, dei naufraghi e degli annegati nell’antico “mare nostrum”, sulle rotte della speranza, in viaggio con una valigia piena di ricordi e di sogni, verso il miraggio di una vita migliore. E l’idea di un’unica comunità di donne e uomini, nel segno di una fratellanza universale: «Se c’è un voi / – voi che mi vivete accanto – / ci dovrà pur essere un noi / – noi che ci incontriamo ogni giorno -. / Ma se un voi non ci fosse, / esisterebbe solo un noi, / un unico blocco di umanità, / senza distinzioni, / senza sopraffazioni, / senza confini, / senza bandiere».
“Noi” ovvero la misura duale dell’amore o dell’amicizia, a fronte dell’inferno e del gelo della solitudine, mentre «parole idee / concetti e ragionamenti / senza intendimenti / (senza capirsi, cioè) / vagano nell’aria / entrano nelle orecchie / e volano via / senza lasciar tracce…»; il ritratto di esseri smarriti e confusi, «aggrappati al nulla / in cui cercare anche un flebile barlume di futuro» e un esempio di “Dialettica Politica”, ma anche “Il Trionfo dell’Individualismo” in un immaginario dialogo con Pier Paolo Pasolini.
Si giunge a un punto di non ritorno: «E poi ad un certo punto / arriva il momento in cui / diventa totalmente inutile / aspettare, / in cui non c’è più niente / da aspettare, / neanche più che nel fiume / passi il cadavere / di un qualsiasi nemico, / visto che neanche il fiume / passa più. / Per una vita intera abbiamo aspettato / che girasse il vento / e il vento non ha mai girato… Il tempo dell’attesa ormai è scaduto./ È la resa dei conti, / il momento in cui ai pettini / sono arrivati i nodi». E il coraggio di un’ultima sfida, o forse una rivelazione, una curiosità da soddisfare: «E se ci si lasciasse andare un po’, / Male farebbe? / E a che cosa poi farebbe male / Se ci si lasciasse andare / Almeno un po’? / Un po’ alla deriva / o alla rinfusa».
Infine tutte le variazioni del “Blu”, tra un autunno improvviso e l’avvertire in sé «tutta la tristezza del mondo. / Tristezza, sottolineo, e non dolore / che contro il dolore si grida / non si resta basiti / ad osservarne i contorni / seduti ai limiti estremi di un’epoca / sempre mal vissuta e mal digerita» dove «il grigio del cielo si confonde / con l’idea del futuro, mentre ci si scazzotta confusamente / per le conseguenze delle sconcezze del passato. / Nessuno mai che si senta di assumersi / la sua parte di responsabilità. /Tanto la colpa è sempre del cielo…». Un omaggio a Vincenzo Cardarelli con il nido segreto dei “Gabbiani” e la conclusione «certo amerei ancora la quiete, / come forse anche loro / la gran quiete marina, / e il mio destino resta sempre vivere, / ma senza più balenare in burrasca». E ancora le parole alate della poesia contrapposte alla prosaicità dell’esistenza: «…allora le parole sarebbero / la soave melodia delle nostre voci serene / (non come ora, che sono urla rabbiose)» e la visione della città dall’alto, che non cancella le asprezze del vivere: «non c’è nessuna pace / neanche nelle notti serene / per chi non se la può permettere».
Infine – amara e folgorante – una visione del mondo sull’orlo della catastrofe, come una terribile profezia divenuta realtà: «Ho visto la terra / sciogliersi al sole / avvolta dalle fiamme / appiccate per gioco / o per bieco interesse. / … Ho visto il cielo / oscurarsi sotto i mostri rotanti / divoratori di vento / concedere le sue grazie / agli sfruttatori del tempo. / Ho visto l’umanità / divorare se stessa / massacrarsi l’un l’altro / per un pugno di mosche / ed un pezzetto di terra». E l’antica saggezza o forse stanchezza, di chi ha conosciuto la notte e il sonno della ragione: «Ho visto abbastanza / da non temere più nulla».
E un’ultima immagine: «Notte. Interno casa: una chitarra appoggiata sulle gambe, una mano che forma che gli accordi, l’altra che che pizzica le corde in un arpeggio elementare. Una persona, suona una serenata a se stesso, con quel sorriso un po’ amaro che ci regala l’ironia, quando non ci si prende troppo sul serio». Ma – come ricorda l’autore – «questo non un film».